L’epopea della canapa a Carmagnola

L’epopea della canapa a Carmagnola

di Domenico Agasso jr

La canapa è un materiale attualmente desueto: la maggior parte di noi non ha più idea di quale sia il colore della canapa lavorata.
Ma la lavorazione della canapa per la fabbricazione delle corde è stata per secoli l’attività principale di Carmagnola e in particolare di Borgo San Bernardo. Sviluppatasi nel corso dell’Ottocento, ha reso nella prima metà del XX secolo il Bòrg d’i Saputò (così viene chiamata la borgata) famoso in tutta Italia per questa specializzazione. A quell’epoca San Bernardo è infatti tutto un brulicare di famiglie di cordai (tra le quali quella più rilevante e conosciuta è quella di Marta Perlo, che il 18 aprile scorso ha compiuto 102 anni), che svolgono nei rispettivi sentè il loro mestiere, oggi scomparso.

In quegli anni, quando si devono fabbricare cavi di grosso diametro e di lunghezza superiore ai cento metri, si ricorre alle piste in aperta campagna denominate benne, logicamente sprovviste di forza motrice. L’unica forza è procurata dalle braccia degli operai.
Il procedimento inizia dal magazzino della canapa, che viene acquistata nei mercati e nelle fiere dei paesi produttori limitati ai comuni di Carmagnola, Carignano, Lombriasco, Pancalieri, tutti dislocati nelle vicinanze del Po. In questo locale essa viene accatastata e ammucchiata con criterio, selezionando una prima e una seconda qualità in base alla finezza e lucentezza della fibra.
Il secondo locale, il più importante, il cuore della lavorazione, è costituito dalla famosa “tettoia”, ossia la pista più o meno lunga dove si inizia con il filare e si termina con l’avvolgimento in rotoli del prodotto finito. Il meccanismo tecnico della filatura si basa su una ruota fatta girare da un ragazzino, il virù.

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Nelle immagini, scene dalla lavorazione della canapa a Borgo San Bernardo di Carmagnola.

Il terzo locale è destinato alla pettinatura della canapa. Esso consiste in una tettoia chiusa da tre lati dove, sul lato di fronte a quello aperto, sopra un’impalcatura di legno che corre lungo tutto il muro, vengono legati i cosiddetti “ferri”, ossia dei grossi pettini in acciaio che servono sia a strappare che a pettinare la canapa. Gli uomini, i brusciù, strappano e pettinano tutto il giorno con movimenti rotatori ed energici, che modellano in quelle persone fisici e muscolature da fare invidia ai palestrati di oggi. Le donne, le più anziane, dette pasoire, pettinano invece le stoppe che sono più corte e quindi più facili da lavorare.

Infine, l’ultimo locale, il più piccolo ma non meno importante, è destinato al prodotto finito, il salotto, la cassaforte, che veniva visitato dai negozianti sempre muniti di portafogli talmente grandi e con tanti scomparti sino a deformare vistosamente la tasca della giacca in cui erano depositati.

Aldo Marello, un cordaio discendente da generazioni e generazioni di cordai che per secoli hanno lavorato la canapa, ricorda: «Le fertili sponde del Po, da Moretta a Carignano, hanno favorito nei tempi l’inserirsi di questa coltura nella zona, e con la fibra si sono inseriti i cordai, tutti raggruppati nella borgata di San Bernardo. La fibra della canapa carmagnolese era ottima per le corde, i cavi e le gomene. Per i filati da tela e da lenzuola, la migliore canapa si è sempre coltivata nel napoletano e nell’Emilia, ma utilizzando la canapa carmagnolese, con il suo ottimo seme detto “gigante di Carmagnola”, che annualmente veniva esportata dal Piemonte. La maggior produzione sanbernardese era formata da cavi e gomene per bastimenti e corde varie per le industrie, oltre alle forniture militari per l’Arsenale di Torino. Ci fu una fiorente attività di emigranti sanbernardesi, detti “maestri cordai”, che dalla nostra zona espatriavano in Francia con le loro famiglie a lavorare la canapa che il datore di lavoro francese acquistava a Carmagnola, in quanto il dazio sulla canapa greggia era di gran lunga inferiore a quella sulle corde finite. Lo spostarsi di queste persone all’estero o nei mercati regionali e torinesi, e il dover trattare con militari per la vendita dei loro prodotti fecero sì che i sanbernardesi si organizzassero anche in una cooperativa di mutuo soccorso per sovvenire ai bisogni nei momenti difficili. Il lavoro dei cordai era infatti molto pesante, duro e poco pagato, e per sentire meno la fatica si pettegolava, si pregava e si cantava».

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E da 17 anni, a portare avanti la memoria di questa antica tradizione rurale ci pensa il Gruppo Storico Cordai, presieduto da Catterina Longo Vaschetti (il vicepresidente è Aldo Marello). Dal 1991 infatti il Gruppo sanbernardese porta in tutta Italia il Sentè, cioè la struttura in cui si fabbricavano le corde fino ai primi anni Sessanta. Il Gruppo Storico Cordai mantiene vivo e trasporta nelle fiere, nelle feste di paese, nelle rappresentazioni storiche di tutta Italia questo mestiere, che tra l’altro è stato molto raro, a tal punto che «in passato in tante città si stupivano per la presenza di un solo cordaio, mentre da noi a San Bernardo di Carmagnola probabilmente c’era solo una famiglia che non lavorava le corde…» commenta divertita la Longo Vaschetti. Il Gruppo dei Cordai ha anche allestito un Ecomuseo, inaugurato il 18 aprile 1998, nel quale è appunto sistemato e costantemente curato il Sentè. Queste iniziative del Gruppo Storico Cordai sono realizzate anche e soprattutto in favore dei giovani, ai quali Catterina Longo Vaschetti rivolge un appello: «Noi siamo disponibili ad insegnare questa attività a chiunque sia interessato, perché non siamo eterni, e se non si crea un ricambio, si rischia di perdere questo pezzo di storia così originale. E poi – precisa – le corde fatte così non esistono più: quelle realizzate con la canapa hanno delle qualità uniche, e spesso ci cercano da molto lontano per averne qualche esemplare».

0 QUESTO ARTICOLO E’ APPARSO SUL N. ZERO di “Roero Terra Ritrovata”
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