«Non siamo mica nati ieri». Ricordando Antonio Adriano
di Piercarlo Grimaldi
Così vogliamo ricordare Antonio Adriano, ultimo saggio uomo selvaggio della postmodernità, straordinario conoscitore e interprete del paesaggio rurale.
(Riproponiamo con alcune varianti la postfazione apposta al libro di Antonio Adriano “Feste sotto la Luna. Balli e ballate dell’Albese”, Omega, Torino 2006)
La ripresa della tradizione in anni recenti è un fatto culturale che ha sorpreso un po’ tutti, che si è imposto nelle pratiche quotidiane ed eccezionali della vita, in sordina, con timidezza sociale e culturale. La tradizione è tornata di nuovo a condizionare e a dettare il nostro percorso evolutivo, così come è sempre stato sino a una manciata di decenni or sono, quando la società italiana era di prevalente impianto rurale. Poi il processo di industrializzazione e la diaspora contadina. Dalle campagne se ne vanno, abbandonando colture e culture, alla ricerca di un sistema di garanzie che avrebbe dovuto proteggere e salvaguardare quello che era stato, sino ad allora, il precario ciclo della vita materiale dell’uomo condizionato dai non sempre rispettosi ritmi delle stagioni. Lontano dalle malore fenogliane e da quei ritmi costitutivi del tempo tradizionale che governavano e proteggevano soprattutto i processi immateriali connessi al ciclo della vita. Si preferisce trascorrere dalla nascita alla morte con meno miti e più certezze, quali un’accogliente culla e una dignitosa bara, che il mondo della tradizione non assicurava affatto.
Nel corso di pochi decenni, però, il sistema che doveva proteggere sempre più l’individuo contemporaneo si è andato sgretolando e le certezze e il garantismo che l’industria prometteva si sono dimostrati un’alea come tante altre che hanno scandito le stagioni del mondo. E così l’evocata centralità operaia non si è fatta tale, la classe dirigente del presente non è stata definita da quelle persone che hanno smesso i pantaloni rattoppati dei campi per indossare la tuta blu della fabbrica. Al trascorrere del millennio si è ben compreso che il secolo che ci attendeva ci consegnava orizzonti non scontati, imprevisti, precari. Il processo produttivo industriale si trasforma rapidamente e si entra in un’epoca postfordista di cui non conosciamo chiaramente ancora i contenuti e gli indirizzi di senso. Nell’arco di una, due generazioni, si assiste, dunque, a una trasformazione intensa ed epocale. Il contadino che si è fatto operaio, dopo aver cercato di integrarsi nella cultura urbana, ricerca prima timidamente, poi con sempre maggiore intensità, di recuperare i sentieri abbandonati del mondo della tradizione. Vieppiù questa figura sociale tende a un rinnovato rapporto con gli spazi e i tempi del passato. Esplora dunque quotidianamente orizzonti che gli permettano di riappaesarsi, di ritornare a vivere, seppur fugacemente, quei ritmi della cultura e della natura di cui oggi avverte il profondo lutto. Una strategia che lo porta a pendolare sempre più tra il tempo moderno e quello della tradizione. La ricerca quotidiana spazio-temporale, tra formazioni sociali ed economiche differenti, è generatrice, a mio avviso, del tempo postmoderno in cui tutti noi oggi ci autorappresentiamo.
Se questo è il sommario quadro di una società, la nostra, in profonda trasformazione, occorre soffermarsi su come è stato possibile che la tradizione abbia conservato vitalità, memoria, negli anni del più totale abbandono delle campagne, pronta per essere recuperata nel più recente momento del bisogno.
Antonio Adriano
In questo snodo culturale e sociale si collocano Antonio Adriano e il Gruppo spontaneo di Magliano Alfieri, cui dobbiamo una ricca ricerca antropologica e storica frutto dell’impegno culturale e affettivo di quella che è stata, ed è, prima di tutto una compagnia di amici. Nella pratica del canto popolare, dei riti calendariali, nella raccolta e nella conservazione dei tratti della cultura materiale, la memoria contadina tradizionale messa in scena dal Gruppo spontaneo non subisce profondi oblii, drammatiche interruzioni. Il Gruppo spontaneo ha cresciuto più generazioni alle pratiche e alle forme della cultura popolare. Tra queste generazioni trascorrono chiari, trasparenti, intangibili il gesto e la parola che sono alla base del sapere orale e gestuale del mondo contadino.
Antonio Adriano è stato l’anima di questo gruppo, di questa scelta di vita che non si colloca nel solco della riproposta popolare ma che opera e legittima con autorevolezza scientifica, senza soluzione di continuità, il trascorrere della tradizione nella postmodernità. Sulle colline di Magliano Alfieri il canto delle uova e del maggio non si è mai interrotto. L’orso di piume e la capra carnevalesca escono di tanto in tanto a ritualizzare la fine del carnevale di Langa, sporadiche e notturne riprese che solo una comunità ancora attiva, che ancora conosce il profondo senso cognitivo che il rito possiede, può permettersi di rimettere saltuariamente in gioco, in funzione della spontanea decisione dei giovani e non perché organizzato dalla Pro loco o da una delle tante istituzioni che oggi operano nel “mercato della tradizione” e scandiscono il nuovo, irrituale, calendario contadino.
“Parlandone da vivo”
Sono passati due anni da quando ci raggiunse, dolorosa e improvvisa, la notizia che Antonio non era più con noi, che era andato ad abitare quella parte del paese dove vivono gli antenati. E allora mi viene in mente la formula contadina che ogni vera comunità sa ancora praticare quando muore un proprio figlio, quel dispositivo formulare che fa sì che la persona che se n’è andata non sia morta per sempre ma sopravviva, come suggerirebbe Cesare Pavese, ancora a qualche giro di stagione, sino a che la memoria orale collettiva non lo abbia dimenticato, sino a quando le generazioni future non abbiano abbandonato la pratica del gesto e della parola. “Parlandone da vivo”, rinarrando incessantemente l’universo di Antonio, la comunità non abbandona il defunto al proprio destino ma lo rende partecipe dei destini del paese. Antonio Adriano è parte attiva, viva della comunità perché i gesti e le parole che aveva appreso dalle generazioni con cui aveva intessuto un ininterrotto e fecondo dialogo continuano, ora, nelle nuove generazioni che aveva educate ai miti, alle pratiche e alle forme della tradizione.
Il suo immenso archivio
Antonio Adriano ci lascia una grande, impegnativa e preziosa eredità immateriale e materiale a partire dal vasto e prezioso archivio costituito dalle sue pubblicazioni, dai tanti e diversi materiali di ricerca ritrovati sui terreni della Langa e del Roero, raccolte di canti, di fiabe, leggende, narrazioni popolari, storie di vita. Straordinario conoscitore e interprete del paesaggio rurale, ci ha consegnato un patrimonio fotografico unico e irripetibile che documenta un mondo che oggi non ci è più dato di osservare, completamente stravolto da uno sviluppo industriale e neorurale per nulla rispettoso del paesaggio tradizionale. Contro questo dissennato uso del territorio Antonio ha sempre lottato con determinazione esemplare. Soprattutto ha lottato contro quelle tante persone, imprese e istituzioni che delle Langhe e del Roero fanno quotidiano commercio e che, oggi, utilizzano anche le tradizioni raccolte e conservate da Antonio per vendere meglio, al miglior offerente, questo meraviglioso territorio che i nostri padri ci hanno consegnato. Ricorrendo a una dotta quanto opportuna citazione tratta da Tex Willer, Antonio definiva «uno sputo di paese» quei luoghi che avevano distrutto il loro paesaggio tradizionale in omaggio a una presunta modernità. La sua lotta ideale, pacifica, era rivolta soprattutto contro questo nuovo modo di concepire le colline del Piemonte meridionale. Un patrimonio intangibile quanto fragile, stravolto da innovazioni strumentali, da un uso sconsiderato del paesaggio, da una pratica folklorica del revival inconsistente e fatua.
Intellettuale-contadino
Antonio, raffinato intellettuale-contadino, ha protetto la Langa dai neobarbari non solo con la ragione degli affetti ma continuando a coltivare la sua campagna come aveva appreso dal padre e dalla madre. Oggi la sua casa e i suoi terreni sono un altrove folklorico, unica testimonianza di che cos’era sino a poco tempo fa la valle del Tanaro ora squarciata dall’autostrada e da un immorale tessuto produttivo che si è sviluppato selvaggiamente. Il suo ciabòt, le sue piante che danno ancora antichi frutti dai sapori irripetibili, sono lì a narrarci di un’avventura umana splendida e trasparente. Di un uomo che con intelligenza, onestà, caparbietà ha conservato un universo altro rispetto ai correnti valori commerciali. Di un eccellente studioso che dall’alto del castello di Magliano Alfieri che domina la valle si sporgeva a interpretare il territorio, a fare osservare al distratto visitatore le sempre più labili tracce del passato e le sempre più drammatiche e violente trasformazioni. E poi ti accompagnava a visitare il Museo dei gessi che aveva voluto, progettato e realizzato a partire dai soffitti in gesso, raccolti decenni prima, nelle preziose e colte case contadine del passato che venivano furiosamente abbattute per lasciare il posto ad abitazioni più moderne e razionali. E poi ti parlava con altrettanta passione del Museo del paesaggio che sognava di realizzare.
Il suo spirito critico
Se vogliamo restituire ciò che resta della Langa e del Roero ai ritmi costitutivi dell’oralità contadina, dobbiamo ricominciare necessariamente dall’impegno culturale e dalla profonda umanità troppo presto interrotta che hanno caratterizzato i giorni e le opere di Antonio Adriano. Dobbiamo ricominciare dalla sua grande capacità scientifica di comprendere e interpretare criticamente le trasformazioni della società. Dalla sua accortezza a non aderire a mode effimere e passeggere. Dal sapere che sono i patrimoni della tradizione che fanno di un luogo una comunità e che la comunità è fatta di vivi e di morti che insieme costruiscono l’unico, certo e possibile futuro. Dal ricordarci che non sempre occorre essere inutilmente moderni. Antonio direbbe, recuperando un’espressione formulare contadina, che, in fondo, «non siamo mica nati ieri» e «non siamo neanche troppo di manica larga»: abbiamo una profonda memoria che ci giunge dalle generazioni che ci hanno educati e sappiamo essere anche giudici severi, non disposti a qualsiasi prevaricazione in nome di una presunta modernità costruita senza passato.
Antonio si è fatto terra al maturar del grano, quando le sue albicocche che sanno di tutti i sapori del mondo sono giunte a maturazione, quando sulle colline si accendono i falò e le lune delle lunghe feste estive e il canto notturno si distende sulle pavesiane colline libere. Così vogliamo ricordare Antonio Adriano, ultimo saggio uomo selvaggio della postmodernità che se ne va nel tempo dei raccolti. Il grande pianto funebre che la comunità gli ha riservato lo farà rinascere negli alberi e nella natura che ci ha insegnato a rispettare e ad amare. Ritornerà a ogni risveglio primaverile, quando l’albicocco si ricoprirà ancora di fiori, quando l’incessante ciclo delle stagioni, dell’eterno ritorno, trionferà come sempre sulla morte dell’inverno.
La storia di Antonio è una storia lunga e bella che fa piacere raccontare. È una storia che va raccontata ai giovani figli di queste colline. Quasi una fiaba da cui ripartire per rifondare l’orizzonte spazio-temporale delle Langhe. Quando gli occhi dei bambini invitano al sonno non dimentichiamoci di narrare, ancora una volta, questa storia lunga e bella che fa piacere raccontare, perché la memoria orale sopravvive solo se incessantemente alimentata e ripetuta.
QUESTO ARTICOLO E’ APPARSO SUL N. UNO di “Roero Terra Ritrovata”
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