Gelindo ritorna

Gelindo ritorna

 di Olga Scarsi

 

Il Gelindo è il pastore-contadino che per primo accorre in visita alla capanna di Betlemme dove è nato il Bambin Gesù, portando doni e prima assistenza, ed è raffigurato nell’iconografia presepistica come la statuina del pastore con l’agnello sulle spalle e l’inseparabile piva. Una favola sempre attuale che torna a deliziarci per il Natale.

 Il “Gelindo” è il teatro sacro popolare, allestito un tempo nei teatri locali, negli oratori e nelle stalle contadine, che porta in scena la natività del Bambin Gesù attraverso il racconto e le vicende familiari del pastore-contadino chiamato, appunto, Gelindo.

Una tradizione tornata alla ribalta da alcuni anni in molte aree del Piemonte, e proposto nel 2008-2014 anche nel Roero grazie a un nuovo progetto dell’Ecomuseo delle Rocche del Roero. La convinzione che sta dietro al progetto e alla vocazione ecomuseale è infatti l’importanza di mantenere vive quelle tradizioni delle nostre comunità che sono fondamentali beni culturali, seppur immateriali: non nell’ottica di proteggerne l’immutabilità nel tempo, ma per riproporli nel solco di una tradizione antica che ridiventa presente vissuto, aperto alle innovazioni; ed è proprio il recupero di una versione contemporanea del dramma, a cura dell’abile penna del piemontesista Corrado Quadro, a concretizzare questo assunto.

Come scrive Paula Gunn Allen, le culture che fanno affidamento sull’oralità sono sempre «a una generazione dalla scomparsa»: basta il silenzio di una generazione perché esse si perdano.

Ma “Gelindo ritorna”: è il suo stesso motto, entrato tra le più comuni espressioni proverbiali piemontesi, a dichiararne l’immortalità.
Proprio a chi per qualche dimenticanza torna sui suoi passi è legata l’immagine del Gelindo con le sue proverbiali entrate e uscite di scena per smemoratezza e meticolose raccomandazioni.
Il Gelindo è il pastore che per primo accorre in visita alla capanna di Betlemme dove è nato il Bambin Gesù, portando doni e prima assistenza, ed è raffigurato nell’iconografia presepistica come la statuina del pastore con l’agnello sulle spalle e l’inseparabile piva.

Una favola sempre attuale che torna a deliziarci per il Natale in un copione di notevole valore letterario: il sacro condito da un pizzico di profano e gustose finezze vernacolari della parlata roerina.

 

Origini

Il Gelindo come testo teatrale nasce nell’alto Monferrato intorno al XVII secolo da autore anonimo e da qui si diffonde in tutto il Piemonte; gli studiosi hanno intuito però la sua derivazione dai misteri medievali del X secolo e la presenza di un primitivo nucleo del Gelindo nelle diffusissime “adorazioni dei pastori”, semplici scene con laudi cantate che fin dai tempi più remoti la gente comune metteva in scena in chiesa durante la messa della mezzanotte.

Il Gelindo alto-monferrino subirà rimaneggiamenti, rifacimenti, traduzioni in altre parlate e dialetti, fino a spingersi in Liguria e Lombardia, e la sua fortuna durerà fino al periodo tra le due guerre, anche come semplice lettura dialogata nelle veglie contadine. Dagli anni Sessanta a oggi la divota cumedia ha vissuto una fortunata stagione di riproposte in tutto il Piemonte: compagnie teatrali si dilettano nel dare nuova voce a un moderno Gelindo, elaborando trait d’union tra le note vicende di un passato antichissimo e i fatti dell’attualità che all’interno della rappresentazione paiono un tutt’uno spazio-temporale.

 

Tracce di “Gelindi” nel Roero

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Il Gelindo in un disegno di Jacopo Valsania.

La diffusione della divota cumedia natalizia sul territorio di Langhe e Roero è facilmente rintracciabile a partire dalle indelebili tracce lasciate dal suo protagonista Gelindo nell’ambito delle espressioni dialettali popolari; dal noto motto “Gelindo ritorna”, indirizzato a chi parte ma per qualche dimenticanza o raccomandazione da fare torna sui suoi passi, all’apostrofare qualcuno con l’espressione “ët sài an Gelindo”, cioè un bonario, un semplicione.

Spesso con il detto “e-i ruva Gelindo!” si anticipa l’avvento del Natale stesso, come a sottolineare l’inseparabile connubio tra il pastore e il tempo festivo della natività.

Presenza costante nei presepi delle parrocchie di tutti i comuni è poi la statuina del Gelindo con l’agnello sulle spalle e la sua consueta collocazione tra i pastori che per primi si affacciano alla capanna; ancora oggi sono in funzione, come nella chiesa di Santo Stefano Roero, le statuine “animate” del Gelido che impressionavano gli occhi trasognati dei bambini in visita al presepe della parrocchia: una monetina inserita nella fessura posta ai piedi del pastore azionava il carillon meccanico posto al suo interno, e dall’immobile Gelindo come per magia si spandeva una suadente melodia pastorale che trasportava nel mistero della Natività.

Che il dramma sacro del Gelindo fosse molto diffuso nella zona lo si evince inoltre dalle numerose testimonianze di anziani che ricordano le rappresentazioni improvvisate nelle stalle, negli oratori o nei luoghi di pertinenza ecclesiale, quando non addirittura nei teatri locali dove compagnie di attori semiprofessionisti azzardavano forse versioni più laiche e ardite della commedia.

Un’attestazione rinvenuta nell’opera di ricerca sul folklore e sulle tradizioni operata da Euclide Milano ci riporta come a Vezza d’Alba un’ultima rappresentazione del Gelindo sia stata messa in scena a teatro nel 1872. Dall’accuratissimo studio di Roberto Leydi confluito nell’opera “Gelindo ritorna. Il Natale in Piemonte”¹ scopriamo inoltre che la diffusione del Gelindo è avvenuta anche grazie a un testo in rima da cantastorie che circolava tra i fogli volanti dei cantori di piazza. Il testo non è datato ma si conosce l’autore e il periodo della sua circolazione, in quanto fu stampato dalla famiglia di Andrea Cereghino, noto cantastorie dell’Appennino ligure attivo tra gli anni Trenta dell’Ottocento e la fine del secolo. Della presenza di questo testo abbiamo numerose testimonianze orali nell’area a noi adiacente, precisamente nei comuni di Treiso, Belvedere Langhe e Saliceto per il Cuneese, Feisoglio per la Langa.

Sono anche presenti numerose versioni di una fiaba natalizia di tradizione orale in cui a far da protagonista è proprio l’amabile pastore: è dalla favola raccolta a Montà che si è partiti per elaborare il copione contemporaneo del Gelindo, ricco di elementi inediti e particolari locali.

Per una disamina storica, l’unica rappresentazione sacra del Gelindo ripresa sul territorio del Roero negli anni passati è quella del Gruppo Spontaneo di Magliano Alfieri, che portò in scena una versione del Gelindo nei teatri di Corneliano e di Bergolo nel Natale del 1973, avendo il merito di intraprendere il sentiero della riproposta in modo decisamente pionieristico se riferito al recente periodo storico. In quegli anni Langa e Roero erano ancora permeati da un forte sentimento di rifiuto e cancellazione dell’identità contadina, in conflitto con i subentranti modelli di modernità. Ma qualcosa si muoveva già in controtendenza.

 

Una fiaba “gelindesca” nelle contrade di Montà

Da questa fiaba a Montà si è partiti per elaborare un collage di elementi inediti che impreziosissero il corpo centrale delle vicende “gelindesche” più note.

«Era la notte di Natale e i pastori dormivano coi loro greggi accanto ai fuochi sparsi per la campagna. Quando apparvero gli angeli ad annunciare la nascita di Gesù, tutti si svegliarono di soprassalto e si diedero da fare a cercare doni da portare a Gesù. Tutti avevano qualcosa: latte, formaggio, lana, agnellini, maglie, coperte, e felici si misero in cammino verso la capanna dove era nato Gesù. Solo Gelindo, che era un povero pastorello che non possedeva niente, era triste; lui non aveva nulla, né pecore, né agnelli, né latte, né formaggi, né lana, né indumenti da offrire a Gesù. L’unica cosa che possedeva era il suo flauto, che si era costruito da solo mentre badava al gregge del suo padrone. Era di legno e aveva tanti disegnini incisi con amore e pazienza; dal suo strumento riusciva a trarre un suono dolcissimo che gli scaldava il cuore e gli metteva allegria. Gelindo si guardò attorno, rimase un po’ sopraspensiero, aveva tanta voglia di vedere Gesù bambino, ma… che cosa gli poteva offrire? Lui non aveva niente, proprio niente, ma il desiderio di vedere Gesù era così grande che decise di mettersi in coda e andare con gli altri pastori a vedere Gesù Bambino. Giunti alla capanna tutti entrarono e offrirono i loro doni e solo Gelindo rimase indietro, seminascosto a tutti, un po’ mortificato…; intanto allungava il collo per sbirciare e per vedere Gesù e… a un tratto vide Gesù che gli sorrideva, che sorrideva proprio a lui… e allora un po’ titubante fece un passo in avanti, prese il suo flauto e si mise a suonare… a suonare… ed ecco era una melodia dolcissima… Tutti i presenti, i pastori, la Madonna, San Giuseppe, gli animali, tutti zittirono, attoniti, stupiti da tanta dolcezza, e quando Gelindo smise di suonare Gesù Bambino gli battè le manine e sorrise estasiato. Gelindo cadde in ginocchio e adorò il Santo Bambino.

Ecco perché, in ogni presepe, davanti alla capanna c’è sempre la statua di Gelindo che suona il suo flauto. Gelindo è il pastorello semplice, il pastore buono, il pastore povero ma dal cuore grande che Gesù Bambino ha voluto premiare considerando il suo suono il dono più bello e più gradito».

L’informatrice che ha ricostruito questa fiaba è Francesca Morone (classe 1939), maestra elementare di Montà, che raccontava la storia ai suoi alunni nel periodo natalizio; un’altra insegnante, Ester Casetta (classe 1917), rappresentava lei stessa questa fiaba ai propri alunni nei panni del Gelindo.

 

Un “mistero buffo”

Una scena in particolare si è voluta valorizzare nella stesura del nuovo e articolato copione, mutuandola dalla fiaba: un episodio di squisito gusto popolare che si verifica durante la visita alla capanna della natività. È qui che si assiste a un primo prodigio di Gesù in fasce, un miracolo non registrato dai Vangeli ufficiali. Un miracolo, per così dire, “montatese”.

Gelindo non ha doni preziosi da offrire per celebrare un momento tanto sacrale, così sfodera il suo flauto e rende omaggio alla Santa Famiglia con le note di una melodia pastorale; Gesù Bambino, venuto alla luce dal ventre materno appena qualche ora addietro, pare gradire il gesto di generosità del pastore e “batte le manine in segno di apprezzamento”.

Probabilmente un miracolo non consapevole, raccontato e tramandato da nonna a nipote senza badare a perplessità o interrogativi razionali. Un miracolo inedito, buffa sintesi di ingenuità e genuinità collettiva.

La sua simbologia nella tradizione piemontese

Il personaggio del Gelindo nei teatri piemontesi, e soprattutto nell’immaginario collettivo, non è mai stato rappresentato come un pastore tout court, ma piuttosto come un pastore-contadino. Non potendo scavalcare le descrizioni delle Sacre Scritture che precisano come i primi a essere avvisati della venuta del Messia fossero pastori, la tradizione ha nel tempo tramutato le sembianze del Gelindo nei tipici tratti del contadino piemontese: cappello in testa, calzoni sotto il ginocchio, gilè, “cavagna” al braccio e bastone. Spesso l’agnello al collo è un dettaglio che sparisce nelle rappresentazioni teatrali e ai doni “pastorali” che porta alla capanna – come l’agnello, le tome e il latte fresco – si affiancano quelli “paesani”: uova, capponi e, nella versione roerina, una bottiglia di buon Nebbiolo!

Molti teatri moderni di riproposta hanno preso in prestito caratteristiche dei pastori meridionali nella simbologia del Gelindo: un processo di idealizzazione della figura del pastore identificata negli zampognari ciociari, molisani e casertani che percorrevano le strade del Nord Italia per portare la novena con il suono degli strumenti natalizi.

Tutte le versioni del Gelindo presentano infatti il pastore come un suonatore di strumenti del repertorio natalizio, quindi “fliti, bagot e calisson”: flauti o pifferi in accompagnamento alla mùsa (o piva), cioè la zampogna a un solo chanter dell’Italia settentrionale.

Una singolare descrizione del Gelindo ci è regalata nel romanzo “I Sansossi”, ambientato a fine Ottocento tra Langa e Monferrato, quando Augusto Monti ricorda la rivalità tra due uomini di cultura del suo paese natìo, Ponti:

“La questione era che i due erano rivali; non mica in amore, per carità, ma in arte in belle lettere. (…) Bersacco aspettava la novena di Natale, che si recitasse Gelindo all’oratorio di San Sebastiano, per isfidare l’aborrito Cavanna a singolar tenzone, e renderlo umiliato. A Cavanna due parti: Ottaviano imperatore e re Erode. A Bersacco una, ma del leone: Gelindo. Bella parte, quella, accidenti! poi nostra, poi sonata come va. Gerusalemme; Betlemme; il censimento; Gelindo Maffeo Aurelia Tirzi Amarilli, pastori. Ma Gerusalemme è Torino; Betlemme è Acqui; Gelindo e compagnia son di quei nostri pastori delle bricche lassù – pifferi e colascioni, ricotte e robiole del becco – al confine tra Piemonte e Liguria. (…) Grande Gelindo: autoritario furbo diffidente e tirchio, almeno nei propositi suoi, ma un bonaccione in fondo, che le donne avviluppano, i servitori disobbediscono, i legali tosano, gli scolari giuntano, i signori conculcano; ma i poveri e gli infelici – come Giuseppe e Maria – lo impietosiscono fino alle lagrime, fino al sacrificio di sé, e della roba sua. Grande Gelindo. Se non fosse che parla vernacolo io direi che sarebbe il più grande contadino di tutte le letterature popolari del mondo: più vivo di Bertoldo, più vario di Thibaud Aignelet, più rusticano di Eumeo. Ma, così rinchiuso nel suo riccio di dialetto alessandrino, non è mai uscito dai confini delle terre nostre e gustare lo possiamo solo noi: quel bell’idioma, ricco pastoso, pieno d’immagini di scorci e di sentenze, scabro e illuminato come quei colli nostri sul calar del sole. Impavido, Gelindo, col suo dialetto fra l’italiano pomposo di Imperatori Confidenti e Regi, disinvoltissimo con berretta e corbella fra manti e corazze, fra corone e turbanti; così credente davanti al Messia: impasta il più bello di cielo e terra, d’antico e nuovo, di Giudea e Langhe, di Roma d’Augusto e Piemonte da poco toccato ai Savoia.

Erode e le scene imperiali

Nella versione roerina del Gelindo si è voluto ripristinare il personaggio di Erode con le cosiddette scene “imperiali”, che in molte versioni sia monferrine sia alessandrine sono andate scomparendo già all’inizio del secolo o erano evocate per mezzo della narrazione fuori campo. Questa scelta favorisce anche il contrasto linguistico tra il mondo del potere che si esprime in italiano e il mondo degli umili popolani che il potere subiscono e accettano come una calamità naturale, con la rassegnazione tipica di chi è avvezzo a far fronte alle sciagure che da sempre, ciclicamente, si abbattono sulle nostre campagne.

 

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QUESTO ARTICOLO E’ APPARSO SUL N. UNO di “Roero Terra Ritrovata”

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Note

¹Omega Edizioni, 2001

Nata ad Alba (Cn) nel 1983, da sempre interessata all'antropologia declinata al territorio in cui vive. Si è dedicata allo studio degli autori locali per la redazione del sito web www.parcoletterario.it e dal 2007 si occupa di divulgazione e promozione presso l’Ecomuseo delle Rocche del Roero. Guida turistica, conduce ricerche sulla storia del territorio ed è appassionata di etnomusicologia. Insieme alla sorella gemella Lucrezia, ha dato vita al duo “Binele Folk”, che propone il repertorio musicale piemontese nelle sue sfumature "femminili", e con un gruppo di amici, al "Roero Folk Festival" dedicato alla musica e ai balli tradizionali.

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