Antichi riti primaverili nel Roero

0Antichi riti primaverili nel Roero

di Olga Scarsi

 

Nei tempi in cui la superstizione dominava le credenze dei popoli, il risveglio primaverile della natura dopo i rigori invernali non era considerato logica conseguenza del ciclo stagionale, ma andava propiziato e invocato come volontà di un dio nascosto tra le radici della vegetazione. Da qui il fiorire quasi universale delle feste di Calendimaggio, per celebrare l’avvento della nuova stagione.

Tali feste hanno avuto un enorme rilievo nella tradizione popolare italiana, testimoni i molteplici documenti scritti a partire dal Rinascimento: si pensi ai notissimi versi del Poliziano: «Ben venga maggio e il gonfalon selvaggio! Ben venga primavera! Che l’uomo si innamori e voi donzelle a schiera con li vostri amatori! Che di rose e fiori vi fate belle in maggio…». Un inno che sintetizza le due componenti inscindibili della propiziazione primaverile: il risveglio della natura che offre i suoi frutti e il fiorire della passione tra giovani.

Per lungo tempo le tradizioni del Calendimaggio non sono state intaccate da alcuna influenza religiosa, mantenendosi feste goliardiche esclusive per il popolo: a partire dal XVII secolo, nel tentare la loro conversione, la Chiesa ha involontariamente dato luogo a suggestivi spettacoli a tema epico detti “Maggi drammatici” che si sono affiancati alle festività di antica data e propongono l’antagonismo inverno –primavera come una lotta fra due eserciti rivali, quello cristiano in marcia verso la Terrasanta che incarna il Bene contro quello saraceno o turco degli “infedeli” che simboleggia il Male. I Maggi drammatici oggi hanno fortuna soprattutto in Toscana, dove la recita di versi antichi si esegue per lo più all’aperto con il trionfo finale delle forze moralmente positive e tutti gli attori accomunati nel tripudio generale e talvolta uniti in un ballo di antichissima memoria: la moresca.

Ma il tentativo forse più riuscito di cristianizzare le antiche credenze fu la soluzione di dedicare il mese di maggio al culto della Madonna: le feste profane laiche dei primi di maggio si confusero e spesso furono abbandonate.
Tale abbandono è stato poi ulteriormente segnato dall’istituzione, nel 1889, della festa del lavoro da parte del movimento socialista: il 1°Maggio ha assunto da allora una moderna connotazione ideologica, accantonando i significati propiziatori di un tempo.

Purtroppo oggi rimangono poche tracce sparse degli antichi fasti del Calendimaggio, ma nel Piemonte contadino la celebrazione del risveglio primaverile è stata conservata in alcuni riti propiziatori giunti fino ai giorni nostri: la questua itinerante del Cantè Magg, eseguita tradizionalmente dalle ragazze, e il rito di piantare l’albero del Maggio al centro della piazza come simbolo di fertilità.

 

L’albero, re di Calendimaggio

Dipinto di Francisco Goya intitolato "il palo unto o la cuccagna" 1786-1787

Dipinto di Francisco Goya intitolato “Il palo unto o la cuccagna” 1786-1787

L’usanza di portare in processione l’albero, detto “il Maggio”, o rami, arbusti, fronde e altri elementi di vegetazione durante le feste di Calendimaggio risale a un antichissimo culto diffuso quasi universalmente: il culto per lo spirito arboreo.
Ad approfondire questo filone di studi fu il Frazer, che ci informa su come i primi templi e i santuari più arcaici presso le popolazioni germaniche e celtiche fossero proprio le foreste, che si stendevano vastissime su gran parte del territorio europeo.

Il rispetto e la devozione verso i numerosi boschetti sacri erano particolarmente osservati a partire dalle ferocissime punizioni che le leggi infliggevano a chiunque osasse anche solo strappare la corteccia di un albero: le piante erano infatti considerate alla stregua di divinità; secondo gli antichi gli alberi possedevano un’anima, uno spirito vivente, e più tardi si pensava fossero le dimore di dei silvani vaganti; quest’ accostamento agli esseri viventi alimentò la comune convinzione che le piante avessero una sensibilità e soffrissero quando venivano abbattuti o bruciati: alcuni popoli riuscivano addirittura a sentirne i gemiti e i lamenti. Inoltre, poiché esseri viventi, gli alberi possedevano uno specifico sesso maschile o femminile: l’abilità stava nel riconoscerlo e nel favorire innesti e fecondazioni.
Agli alberi erano attribuiti svariati poteri e proprietà benefiche: la facoltà di mandare la pioggia o il bel tempo, di far prosperare i raccolti, di far moltiplicare gli armenti e di rendere fertili le donne.

Proprio intorno a queste credenze fiorirono in tutta Europa feste in cui l’albero è protagonista, adorato come un dio portatore di benefici ed energia vitale da recare di casa in casa.
Una singolare datata descrizione della festa dei giovani da parte dello scrittore puritano inglese Philip Stubbes citato dal Frazer ci dimostra come le feste di calendimaggio nel passato incontrassero il pieno sfavore delle autorità:

«A Maggio, nel dì della pentecoste e in altri giorni, garzoncelli e donzelle, vecchi e vecchie, vagano nottetempo per boschi, fratte, colline e monti, trascorrendo la nottata in sollazzi; e tornano al mattino recando rami e fronde per rallegrare le loro adunanze. Nè c’è da meravigliarsene, perché un potente Signore è frammezzo a loro, a dirigere e comandare i loro passatempi, e il suo nome è Satana, principe dell’Inferno. Ma il più grande tesoro che essi recano dai boschi è il loro palo di maggio, che con gran venerazione portano nelle loro case. […] E così alzatolo, con in cima fazzoletti e bandierine svolazzanti, gettano paglia tutt’intorno, vi legano rami verdi, piantano in terra frasche e arbusti. E iniziano a danzare in cerchio come i pagani quando innalzavano i loro idoli di cui questa è una perfetta copia, o meglio la stessa cosa. Mi è stato riferito […] che, delle quaranta, sessanta o cento donzelle che vanno di notte nel bosco, a mala pena un terzo di esse ne ritorna incontaminata».

Anche nella nostra zona il Calendimaggio era motivo di scandalo e indignazione da parte della Chiesa egemone: la relazione del visitatore apostolico in Alba nel 1584, così intimava: «Si levi l’abuso che in questa diocesi è grande di drizzar li arbori che si chiamano Maggi alle feste delle Calende di Maggio, che oltre causa di molti disordini, risse, contenzioni et scandali, dà segno più presto di una pagana superstizione che di actione cristiana e in vece loro si drizzino delle croci in tutti i capi delle strade pubbliche»[1].
Nell’area delle Langhe, Roero e Monferrato l’innalzamento dell’albero in piazza era prerogativa dei giovani di sesso maschile che provvedevano anche a omaggiare le ragazze con rami e fronde verdi che fissavano alle finestre delle loro case: ricordiamo che uno dei poteri attribuiti agli alberi era di portare fertilità alle donne.

 

Maggi nel Roero

L'albero del Maggio a S. Rocco di Montaldo Roero, 2007.  (Foto di Carlo Avataneo)

L’albero del Maggio a S. Rocco di Montaldo Roero, 2007.
(Foto di Carlo Avataneo)

Un caso eclatante di rimanenza cultuale nel Roero è quello di San Rocco di Montaldo Roero. In questa frazione da tempo immemore e fino al periodo fra le due guerre mondiali, si tramanda il rito del piantare l’albero del Maggio a cui prendono parte gli uomini della borgata. Ogni primo maggio alle prime luci dell’alba i borghigiani si incontrano davanti alla chiesa di San Rocco richiamati dal suono cristallino delle campane a festa e si recano nei boschi della silva popularis che circondano il paese per il furto della pess-ra, il pino silvestre che diventerà albero di Maggio. La scelta dell’albero è una fase delicata che si consuma nel periodo precedente la festa, quando, dopo aver accuratamente setacciato e scandagliato i boschi circostanti, si individua l’esemplare migliore, con il fusto ben diritto e dalle grandi dimensioni. Un tempo il taglio dell’albero veniva eseguito a mano con il tromplaò, una sega a doppio manico che alcuni sanrocchesi conservano ancora nelle loro botteghe. Oggi gli arnesi artigiani sono stati sostituiti dalle macchine tecnologiche e dai motosega, che rendono più agevole e sicura l’operazione.

Al taglio del “maggio” segue la scelta e l’abbattimento della “punta”, un altro esemplare di pess-ra che innestato al tronco formerà la cima, in un gioco e una gara in altezza che sfida la forza di gravità. La punta deve essere una pianta giovane e snella, con rami e fronde ordinate e armoniose. I tronchi della “pessra” vengono trasportati in paese (un tempo su carri trainati da buoi, oggi sui trattori) tra i canti degli uomini e il suono delle campane che fanno “gran baudetta” e qui ha inizio la festa vera e propria.
La punta viene spogliata dei rami fin quasi alla cima, mentre il fusto viene scortecciato in tutta la sua lunghezza; ne viene tagliata una sezione su cui è innestata la cima con fori e “caviglie” di acciaio legate intorno al punto di unione. La cima verde viene addobbata di nastri svolazzanti, fiori, bindelli e il fantoccio di un cane, simbolo del patrono San Rocco che vigila sulla borgata.

In quest’ultimo dettaglio si può scorgere un tentativo di cristianizzazione del rito considerato “pagano” da parte delle autorità religiose, che, dedicando simbolicamente l’innalzamento della pess-ra al santo patrono, avrebbero tollerato il gioco maschile. L’innalzamento, un tempo eseguito con le corde e la sola forza delle braccia, viene oggi eseguito con le macchine, sia per il graduale e inesorabile avvento della modernità che trasforma anche i riti antichi, sia per motivi logistici e di sicurezza: le dimensioni ristrette della piazzetta circondata da case e pali della luce non possono ammettere fatalità.

Tuttavia oggi come in passato i casi di rottura del Maggio sono da considerarsi forieri di nefasti presagi, avversità e brutta stagione in arrivo. Se invece il tronco viene issato senza contrattempi sarà portatore di benefici per la collettività e rimarrà a protezione della borgata fino al 16 agosto, quando per i festeggiamenti del santo patrono viene messo simbolicamente all’asta tra gli abitanti del paese. Quest’asta improvvisata prende il nome di ”incanto”, e permetteva e permette tutt’oggi di raccogliere offerte per la borgata: il vincitore dell’asta avrà il diritto di far abbattere il tronco del Maggio per rifunzionalizzarlo come trave portante per le volte della propria abitazione.

I borghigiani di San Rocco raccontano come l’innalzamento del Maggio fino a un ventennio addietro fosse motivo di animosità e contrasti tra compaesani e frazioni contigue: anche San Giacomo tramandava infatti l’usanza di piantare il Maggio, in una gara di altezza, imponenza ed eleganza con i vicini di cui si sarebbe parlato per l’intero anno.
Nel Roero si sono registrati altri casi di rimanenza di Maggi, fotografati negli anni scorsi dallo studioso Ettore Contino: San Giuseppe di Sommariva Perno tramanda l’usanza di abbattere il tronco durante la notte che precede il primo maggio e ha riproposto con vivacità negli ultimi due anni la propria tradizione, mentre per San Bernardo di Monteu Roero la presenza del rito è stata attestata fino a qualche decennio fa.  Al rito dell’innalzamento del Maggio si affiancava un tempo in tutto il Roero la questua primaverile del Canté Magg da parte delle ragazze che recavano il benefico spirito arboreo a tutta la comunità; tale spirito benefico era rappresentato ancora una volta dalle fronde verdi che le ragazze appendevano agli usci di quelle case che offrivano un dono in cambio della visita, e dalla canzone del Magg.

Lo spirito arboreo poteva anche essere concepito separatamente dalla pianta, ed essere figurato in forma umana; raffigurazioni antropomorfiche in cui si incarnava la manifestazione del dio erano un ragazzo o una ragazza rivestiti di foglie e fiori, una coppia di bambini vestiti da sposi,(come nel caso della questua di San Anna di Monteu Roero) o considerati Re e Regina del Maggio, o ancora dama e cavaliere, o una bambola riccamente vestita o un fantoccio. (quest’ultimo presente nella questua di Cisterna d’Asti, come testimonia anche una strofa della canzone). Come osserva Mannhardt le questue «rivestivano ovunque un significato serio, e per così dire, sacramentale; la gente era realmente convinta che nella fronda (e nelle varie figurazioni) si celasse, invisibile a occhio umano, il dio dell’abbondanza che la processione recava in ogni casa»[2]

Il Cantè Magg

Sull’usanza del Cantè Magg abbiamo poche testimonianze e informatori perchè nel Roero era già scarsamente diffusa all’inizio del secolo scorso. È caduta in disuso in tempo di guerra (in molti casi ancora prima), e ha registrato un caso di riproposta nel 1972 nel Comune di Magliano Alfieri, da parte del Gruppo Spontaneo, e qualche anno dopo nel Comune di Montaldo Roero. Il Cantè Magg roerino ha la peculiarità di essere uno dei pochi riti “di genere” dell’intero calendario festivo contadino. E il genere è marcatamente femminile. È una questua itinerante per molti aspetti simile alle questue che si svolgono nel periodo della passione: di origine pagana, organizzata senza l’intervento di autorità religiose che vede il suo svolgimento in spazi riservati alle feste tradizionali.

Gruppetti di ragazzine addobbate di fiori partivano la domenica mattina dei primi di maggio recandosi in visita alle cascine fuori dal paese, portandosi appresso le bambine più piccole. Portavano in processione il “martlet” o “erburin”, una fronda di bosso da cui pendevano fiori, nastri colorati e una bambola che rappresentava la personificazione del dio della vegetazione. Le ragazzine entrando nelle aie intonavano le strofe del Cantè Magg, recando lo spirito magico del risveglio primaverile in cambio di offerte alimentari. Anche la loro iniziativa annetteva una funzione di corteggiamento verso i giovanotti, forse per candidarsi future spose: una di esse è infatti agghindata da sposa e ostenta oggetti di valore come simbolica dote.

La questua primaverile del Cantè magg nella riproposta delle ragazze del gruppo "Canalensis Brando" a Montaldo Roero il 1 Maggio 2007.

La questua primaverile del Cantè magg nella riproposta delle ragazze del gruppo “Canalensis Brando” a Montaldo Roero il 1 Maggio 2007.

Il corteggiamento era in alcuni casi molto velato e occultato, mentre in altri più esplicito, come risulta da alcune strofe della canzone che esprimono chiare lusinghe amorose verso i giovani. In realtà tali versi non erano conosciuti e utilizzati in tutti i paesi che accoglievano la questua; ma la motivazione di fondo che spingeva le ragazzine al Cantè Magg era ben nota all’intera comunità. Un anziano di Sant’Anna di Monteu Roero con un po’ d’imbarazzo ricorda: «Le ragazzine al Cantè Magg volevano farsi vedere che erano già…ragazze, volevano mettersi in mostra»[3].

Ed effettivamente la questua era una delle poche occasioni concesse alle ragazze per uscire di casa senza essere accompagnate da madri o fratelli, nell’ottica della società contadina patriarcale. La cerimonia si svolge solitamente la prima domenica di maggio o a volte il primo maggio, durante il mattino e il pomeriggio, e non dà luogo a reiterazioni. In tutta la zona del Piemonte meridionale le tracce che rimangono del Cantè Magg presentano aspetti dissimili, e numerose sono anche le versioni del canto, o i frammenti che si è riusciti a ricostruirne.

A Sant’Anna di Monteu Roero (Cn) l’informatrice Mariuccia Musso così descrive la questua:

«Mi ricordo che si partiva la domenica mattina, di famiglia in famiglia, si andava in tre, tutte addobbate: quella di mezzo faceva la sposa, le damigelle cantavano Magg: era una filastrocca lunga, adesso me ne ricordo solo più qualche strofa. Si andava ad annunziare la primavera, qualcosa di fresco, di bello. La sposa era vestita con il vestito più bello che aveva, con i pizzi, aveva il velo, i guantini bianchi, una bella borsetta, una collana e ghirlandine di rose e fiori; le altre portavano un cestino per mettere le cose che si raccattavano. A quei tempi non c’era molto, un po’ di mele, o chi dava un biscotto, caramelle o pum smuià (mele nell’acqua). Portavamo in processione il martlet… era un bastone con una pianta verde, un arbusto verde, e ghirlande di fiori… tanti fiori, tanti fiori e rose. Si lavorava un giorno prima per prepararle, non erano cose artefatte, poi al mattino si partiva, ma allora noi bimbe così giovani non si andava tanto distante, eravamo tre bunomette, perché eravamo tutte timide, avevamo paura persin della nostra ombra a quei tempi… avrò avuto undici o dodici anni, se li avevo. Si mangiavano subito i doni, perché eravamo solo in tre, ma se si avanzava qualcosa si divideva e si portava a casa. Sarò andata due o tre volte in tutto, perché era solo a Maggio»[4].
Augusto Porcellana aggiunge «che nel gruppo di questuanti vi era una ragazza vestita di bianco, e nell’aia di ogni cascina visitata piantavano simbolicamente l’alberello “ornato di gingilli” che portavano con loro»[5].

 

La canzone

La versione analizzata è parte di quella raccolta dal Gruppo Spontaneo di Magliano Alfieri.

L'"erburin" o "martlet" che le ragazze del Cantè magg portano in processione.  (foto di Carlo Avataneo)

L'”erburin” o “martlet” che le ragazze del Cantè magg portano in processione.
(foto di Carlo Avataneo)

 

Entruma ‘nt-sa bel éra       RICHIESTA DEL             Entriamo in questa bella aia

cu fa tant bel entré               PERMESSO                  dove è tanto bello entrare

ciamùma a la padrun-a       DI QUESTUARE                   chiediamo alla padrona

sa vol laséne canté                                                      se vuol lasciarci cantare

 

RIT. Bin vene magg, bin staga magg, turnerùma al meis ed magg.
Ben venga Maggio, ben stia Maggio, torneremo al mese di Maggio

 

Suma venù cantare           PRESENTAZIONE                 Siamo venuti a cantare

a cà d-la brava gent       DELLE QUESTUANTI               a casa della brava gente

a i-è rivà d-le fije                                                         sono arrivate delle ragazze
che lùr pensavu nen                                                         che loro non pensavano
Ansima del nostr magg           ESIBIZIONE DELL’                       Sul nostro maggio
i-è ‘l fiur del gelsumin                   ARBUSTO                     c’è il fiore del gelsomino
a l’è la primavera                                                                                è la primavera
cul fiur del rusmarin                                                             col fiore del rosmarino

Sumà la primavera               ANNUNCIANO                         Siamo alla primavera

i fiur sun già fiurì                   LO SPIRITO                                   i fiori son già fioriti

tuti i-usei chi cantu             PRIMAVERILE                   tutti gli uccelli che cantano

i fan piasì a sentì                    IN ARRIVO                                 fa piacere a sentire

 

Voli propì nen cherde       LA PRESENZA DELL’         Non volete proprio credere

(foto di Edo Prando)

(foto di Edo Prando)

che magg sia sa rivà       ARBUSTO è GARANZIA     che maggio sia già arrivato

fevè da la finestra               DEL BENEFICIO                           fatevi dalla finestra

e lu vedrei dubà                 PRIMAVERILE                     e lo vedrete addobbato

 

Purtuma st’érburin           GARBATO OMAGGIO             Portiamo quest’alberello

carià di bei bindlin                 AI PADRONI                           carico di bei bindelli

per fè la riverensa                   DI CASA                               per fare la riverenza

a munsù e a madamin                                               al signore e alla signora

 

Guardè la nostra spùsa         LA SPOSA                     Guardate la nostra sposa

cum’à l’è bin dubà                 RAPPRESENTA                     com’è ben addobbata

a smìa ‘l fiur del pérsi             IL RISVEGLIO                   sembra il fiore del pesco

quandì ch’è butunà               DELLA NATURA       quando è appena sbocciato

 

Guardè la nostra spusa         TENTATIVO DI               Guardate la nostra sposa

ca l’a dui bei urcin                 METTERSI IN               che ha due begli orecchini

chi sa chi l’à cumpraije             MOSTRA                 chissà chi glieli ha comprati

sarà ‘l so parin                                                                     sarà il suo padrino

 

Guardelu là cul giuvu             COMPLIMENTI                 Guardate là quel giovane

l’à tant an bel suris                  AMOROSI                           ha tanto un bel sorriso

Pianté Magg- Edo Prando 010

(foto di Edo Prando)

cun sue manine bianche         RIVOLTI AI                   con le sue manine bianche

se stors i so barbis                   GIOVANI                               si arriccia i suoi baffi

 

Guardelu che bel giuvu                                           Guardate che bel giovane

l’a tant an bel culur                                                         ha tanto un bel colore

guardelu ‘n cula faccia                                          guardatelo in quella faccia

smià ‘n pumin d’amur                                               sembra un pomo d’amore

 

‘Ngrasiuma la padrun-a        RINGRAZIAMENTO             Ringraziamo la padrona

che chila l’à pagà                                                                            che ha pagato

Nusgnur ui dia grasia                                                           il Signore le dia grazia

mantena ‘n sanità                                                                la mantenga in salute

 

MALEDIZIONE in caso di mancata offerta:

 

Signora la madama                                                           Signora la padrona

si chila an na dà nen                                                       se lei non ci dà niente

preguma la Madona                                                     preghiamo la Madonna

c-ai fasa caschè i dent.                                         che le faccia cascare i denti

 

 

I fiori

L’abbondante presenza dei fiori come elemento decorativo non è da sottovalutare. L’usanza di intrecciare fiori per agghindarsi durante le feste o per incoronare le porte delle case ci è stata tramandata dai riti pagani di età romana detti “floralia” e dedicati per l’appunto a Flora, dea protettrice degli alberi nel periodo della fioritura. Anche loro concorrono dunque alla propiziazione di una buona annata, poiché i fiori precedono i frutti e la loro profusione è indizio di un raccolto grandioso. Con l’istituzione del mese di maggio dedicato alla Vergine, anche l’uso dei fiori fu rivolto non più alle Regine del Maggio: doni e addobbi floreali furono riadattati al culto della Madonna.

 

Il ballo

Piantè Magg 2007 a San Rocco di Montaldo Roero. (foto di Carlo Avataneo)

Piantè Magg 2007 a San Rocco di Montaldo Roero. (foto di Carlo Avataneo)

L’apogeo nei riti del Calendimaggio, fin dai tempi antichi, era concludere la festa con un ballo in cerchio intorno al Maggio innalzato sulla piazza. Dagli albori della civiltà la danza ha sempre avuto una funzione rituale e un carattere sacro. I balli a tondo sono diffusi in tutte le civiltà e in tutte le regioni della terra, e come osserva Curt Sachs «la danza in circolo è un patrimonio culturale antichissimo e come tale si è trasmesso dagli stadi primitivi a quelli più recenti».
Persino la Chiesa delle origini «era percorsa da riti, cerimonie, sincretismi, fortemente connotati da elementi ed aspetti pagani o precristiani. La stessa danza, linguaggio del corpo per antonomasia, apparteneva a buon diritto alla liturgia di questa Chiesa. Anche il termine presule che identifica una figura importante della gerarchia ecclesiastica, in latino praesul, significa letteralmente colui che guida le danze»[6] A sostegno di questa tesi molti studiosi hanno appurato che il coro nelle Chiese è sempre stato uno spazio riservato alle danze del clero.
La condotta adottata dalle autorità ecclesiastiche fu in seguito di bandire la danza dai luoghi sacri, e successivamente di ostacolarla anche presso le feste laiche del popolo.
Si narra che nel Cantè magg sia stata danzata a suo tempo la Sarabanda, un ballo di corteggiamento di origine spagnola assai licenzioso, a dimostrare il carattere di propiziazione nuziale del rito.
Tuttavia nelle occasioni di festa popolare si sono conservati soprattutto i balli a tondo e di aggregazione immediata come il brando, eseguito in svariate occasioni soprattutto dai coscritti, che nell’Astigiano a noi più prossimo usano ancora ballare intorno all’albero del Maggio issato sulla piazza come garante dei festeggiamenti di leva.

NOTE

[1] Adriano Antonio, I canti di Maggio nelle Langhe e nel Monferrato, 1986, opuscolo.

[2] Frazer James G., Il ramo d’oro, 1950, Torino, p.158

[3] Antonio Bergadano, classe 1931, intervistato il 21 giugno 2002.

[4] Mariuccia Musso, classe 1926, intervistata il 21 giugno 2002.

[5] Grimaldi Piercarlo, Il calendario rituale contadino. Il tempo della festa e del lavoro, 1993 Milano, Angeli, pag.197

[6] Grimaldi, P., introduzione a Pola Falletti-Villafalletto G.C., Le gaie compagnie dei giovani del vecchio Piemonte, 1937, Casale Monferrato, Maglietta, pag. 9

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Nata ad Alba (Cn) nel 1983, da sempre interessata all'antropologia declinata al territorio in cui vive. Si è dedicata allo studio degli autori locali per la redazione del sito web www.parcoletterario.it e dal 2007 si occupa di divulgazione e promozione presso l’Ecomuseo delle Rocche del Roero. Guida turistica, conduce ricerche sulla storia del territorio ed è appassionata di etnomusicologia. Insieme alla sorella gemella Lucrezia, ha dato vita al duo “Binele Folk”, che propone il repertorio musicale piemontese nelle sue sfumature "femminili", e con un gruppo di amici, al "Roero Folk Festival" dedicato alla musica e ai balli tradizionali.

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