Dal Roero alle Ande (e ritorno). La straordinaria vita di Pasquale Toso

 di Mario Deltetto

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Fu un insieme di fattori – la speranza di fare fortuna, il desiderio di cambiare una vita che pareva priva di possibilità, uno spiccato spirito di avventura – a spingere il giovane Toso a intraprendere un viaggio verso l’ignoto: è il 1884 quando il canalese Pasquale Toso lascia la sua terra natale per raggiungere Genova e imbarcarsi su una nave che lo porterà dall’altra parte del mondo.

Da sempre la letteratura e, da qualche tempo, anche il cinema hanno proposto storie di donne e di uomini in grado di stimolare l’immaginazione delle persone.
La maggior parte di queste è invenzione della fantasia degli uomini, concatenazione di eventi creata ad arte per catturare l’attenzione del lettore o dello spettatore.
Può sembrare inverosimile, ma nella realtà ci sono state vite in grado di superare di gran lunga le vicende narrate dai più grandi autori.
La vita di Pasquale Toso è stata, certamente, una di queste.

Pasquale Toso nacque a Canale: purtroppo non possiamo conoscere il giorno che gli diede i natali dato che la famiglia non ha eredi diretti in Italia e all’anagrafe canalese non sono presenti dati in merito.
Pur nell’incertezza delle fonti, pare assodato che i Toso fossero un nucleo familiare numeroso, tipico per il periodo, dato che all’epoca erano poche le famiglie con una prole scarsa. Non era una famiglia ricca, il padre si guadagnava da vivere dividendosi tra il lavoro nei campi e la sua attività di carrettiere. Tempi duri quelli in cui si svolge la vicenda: stavano infatti per svilupparsi problematiche le cui soluzioni sarebbero andate oltre le possibilità della gente comune.
Nonostante tutto, i primi anni di vita del giovane Toso furono piuttosto sereni, passati nelle campagne che circondano il borgo roerino. Le viti furono sue compagne fin dalla tenera età e in questa continua relazione egli imparò a conoscerne i più intimi segreti.
La seconda metà dell’Ottocento vide dilagare una nuova patologia che colpì e distrusse buona parte della superficie vitata europea: la temibile, famigerata fillossera. Questa malattia, generata dall’azione di un piccolo insetto, ebbe un notevole impatto sull’economia della zona, al tempo in cui la viticoltura era una delle maggiori fonti di reddito per gli agricoltori dell’area di cui parliamo.
Purtroppo la popolazione non era solamente vessata dalla crisi della viticoltura, ma anche dalle guerre risorgimentali. La vicenda del Nostro si inserisce nel periodo in cui il Regno di Sardegna sta utilizzando buona parte delle proprie risorse per raggiungere l’unificazione dello stato italiano.
I fenomeni descritti ebbero ripercussioni notevoli sulle comunità di questi territori e una delle conseguenze relative a queste situazioni critiche fu l’emigrazione.
Il contesto sociale locale non permetteva molti margini di sviluppo e molto probabilmente è per questo motivo che Pasquale Toso diresse il proprio sguardo verso terre lontane, a territori che si estendevano oltre l’oceano.
L’America sembrava una terra ricca di promesse, le voci riportate da coloro che erano ritornati dall’Argentina descrivevano quel paese come la nuova frontiera delle opportunità.
Fu un insieme di fattori – la speranza di fare fortuna, il desiderio di cambiare una vita che pareva priva di possibilità, uno spiccato spirito di avventura – a spingere il giovane Toso a intraprendere un viaggio verso l’ignoto: è il 1884 quando Pasquale Toso lascia la sua terra natale per raggiungere Genova e imbarcarsi su una nave che lo porterà dall’altra parte del mondo.

L’emigrazione italiana in Argentina e i viticoltori di Mendoza
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A partire dagli inizi dell’Ottocento furono molti gli Italiani che migrarono in Argentina. Il picco massimo di questo fenomeno si ebbe verso il 1880: in quegli anni furono soprattutto i piemontesi a dirigersi verso le pampas dell’America del sud, in quanto i problemi generati dall’invasione filosserica e lo sforzo bellico per l’unificazione d’Italia avevano impoverito di molto proprio la regione nord occidentale.
Nelle aree urbane, o comunque a forte densità demografica, si instaurarono soprattutto le élite culturali di stampo mazziniano, le quali diedero origine a testate giornalistiche come “L’Italiano” (fondato nel 1854), “La legione agricola” (1856) e, in seguito, “L’operaio italiano”, “Il Maldicente”, “La patria degli italiani”.
Negli ambienti rurali si concentrò invece, com’è facile immaginare, il ceto contadino che, dopo un periodo iniziale di bassa manovalanza, generalmente tentava di costruire un’attività in proprio, concentrandosi maggiormente nel territorio di Mendoza.
La zona di Mendoza è una provincia che si estende ai piedi delle Ande. Tra il Seicento e il Settecento alcuni gesuiti insegnarono alle popolazioni autoctone a coltivare i vigneti e a fare il vino. Tali produzioni rimasero comunque sempre molto scarse e consumate esclusivamente dagli abitanti del luogo. Il primo a commercializzare il vino in tutto il paese sudamericano fu proprio un Italiano, Antonio Tomba, il quale riuscì a costruire una rete distributiva molto ampia.
Successivamente all’ondata migratoria italiana di fine Ottocento, le aziende nella zona di Mendoza si moltiplicarono fino a far diventare l’Argentina il sesto paese al mondo per la produzione di vino.

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Le cronache dell’epoca e gli studi successivi hanno complessivamente stilato un elenco di trentaquattro pionieri dell’enologia argentina: il canalese Pasquale Toso figura tra questi.
Egli cominciò la sua avventura come cameriere in un hotel di Buenos Aires, ma la vita di città non si addiceva al suo temperamento e, infatti, alla prima possibilità lasciò quell’occupazione per andare a lavorare nei campi.
Dapprima si guadagnò da vivere come semplice bracciante presso grandi proprietari terrieri: chiaramente, in quel contesto non erano molte le possibilità di crescita professionale ed è per questo motivo che, appena potè, Pasquale Toso comprò un appezzamento per dare avvio alla sua attività imprenditoriale.
L’indomito canalese non fu solo un agricoltore dalle indubbie capacità, ma anche un abile… seduttore: conquistò infatti il cuore di Caterina Alderani, figlia del suo primo datore di lavoro in Argentina. Il matrimonio con l’Alderani modificò decisamente il suo status sociale ed economico e, grazie alle consolidate risorse che potè gestire dopo le nozze, cominciò la sua attività vitivinicola associandosi con Battista Gargantini e aprendo una prima bodega a San Josè di Guaymallen.
All’interno dell’azienda entrarono anche diversi parenti, tra cui Giovanni Giol (cognato di Gargantini) e i fratelli Toso, Giovanni e Sebastiano. Dopo un certo periodo si verificò una scissione all’interno della società: Gargantini e Giol avviarono una propria attività, mentre Pasquale e i suoi consanguinei continuarono sotto il marchio “Toso F.lli”. Alla morte di Giovanni, Pasquale e Sebastiano separarono le attività: Pasquale continuò il lavoro nella bodega di San Josè, la quale diverrà importante per la produzione di Spumante Metodo Classico e Moscato.
Nonostante il successo economico e professionale, la malinconia per la lontananza da casa si insinuò nell’animo di Pasquale Toso, che non potè mai dimenticare i paesaggi della propria terra né le persone che avevano accompagnato i primi passi della sua vita. I ricordi si insinuarono nella sua memoria diventando un richiamo irrefrenabile al punto che, guidato da questo sentimento che in un altro paese sudamericano chiamerebbero “saudade”, Pasquale Toso tornò in Italia lasciando ai figli la gestione dell’azienda.
Al suo ritorno, il Roero (allora ovviamente non conosciuto con questo nome) non si presentava molto diversa da come lo aveva lasciato ormai parecchi anni prima. La popolazione continuava a vivere in condizioni pessime e non vi erano strutture sanitarie in grado di sopperire alle più elementari esigenze. Fu questa situazione precaria in cui versava la popolazione locale e lo spirito di umana compassione che spinsero l’ormai anziano Pasquale a donare ai suoi compaesani, e agli abitanti della zona in genere, l’Ospedale.
Nel paese del pesco il pioniere dell’enologia sudamericana passò i suoi ultimi anni di vita: nel 1928 la morte lo colse a Canale e la notizia della sua scomparsa fu una dolorosa sorpresa per tutti coloro che lo conoscevano: anche per i suoi vecchi dipendenti dello stabilimento in Argentina, i quali gli resero omaggio con una lapide che ancora oggi si trova nel cimitero di Canale.

La lapide che gli anziani dipendenti dello stabilimento di vitivinicolo fondato da Toso in Argentina posero nel cimitero di Canale, all'indomani della morte del loro vecchio datore e compagno di lavoro.

La lapide che gli anziani dipendenti dello stabilimento di vitivinicolo fondato da Toso in Argentina posero nel cimitero di Canale, all’indomani della morte del loro vecchio datore e compagno di lavoro.

La funzione dell’Ospedale

Per comprendere la valenza della struttura sanitaria canalese abbiamo parlato con il dott. Silvio Beoletto, che ne è stato direttore sanitario dal 1966 fino agli anni Ottanta.
Il primo a costruire a Canale un’opera in grado di sostenere la popolazione da un punto di vista igienico-sanitario fu don Brignolo. Egli realizzò un piccolo orfanotrofio il cui obiettivo era quello di aiutare i bambini privi di un sostegno familiare. Successivamente, negli anni Venti del secolo scorso, Pasquale Toso ampliò ciò che già esisteva e trasformò l’istituto per orfani in un nosocomio all’avanguardia per l’epoca. In questo senso va dunque intesa l’opera fondativa di Toso: nell’aver convertito a struttura sanitaria a tutti gli effetti, a proprie spese – investendo buona parte degli utili prodotti dall’attività vitivinicola argentina – un luogo precedentemente adibito all’accoglienza degli infanti.
Per la popolazione della sinistra Tanaro poter usufruire di un Ospedale attrezzato, facile da raggiungere anche per i limitati mezzi di trasporto dell’epoca, frequentato da operatori sanitari competenti e professionali, fu una sorpresa immensa. Lieta, ovviamente! In quel periodo l’ospedale di Alba era l’unico in grado di somministrare cure regolari alla popolazione: ma purtroppo in quegli anni non era semplice recarsi nella cittadina, i mezzi di locomozione, lo abbiamo detto, erano piuttosto primitivi (molte famiglie non possedevano nemmeno il biròch) e le risorse economiche erano decisamente scarse. In questo contesto un’organizzazione assistenziale decentrata come quella canalese ebbe un’importanza fondamentale per chi non disponeva di buone risorse finanziarie. «La sala operatoria – ricorda Beoletto – era ben fornita ed erano molte le operazioni chirurgiche che si eseguivano a Canale. Nel 1945 venne addirittura operato Duccio Galimberti, che era stato colpito da un’arma da fuoco durante un combattimento».
Successivamente, a cavallo degli anni Cinquanta-Sessanta, il dott. Nello Crozzoli condusse studi legati al comparto ortopedico e quando raggiunse risultati certi eseguì proprio a Canale il primo intervento di artoprotesi all’anca. In anni più recenti, l’attività del dott. Beoletto e di sua moglie (entrambi ginecologi) fece sì che il nosocomio di Canale divenisse un centro con un altissimo tasso di nascite.
Nel 1968 la struttura venne classificata come un Ospedale di quarta categoria. Questo significava che il personale medico era esterno, dunque apparteneva ad altre strutture e prestava servizio a Canale solo per qualche giorno alla settimana (tranne il direttore sanitario, che rimaneva nella struttura a tempo pieno).
Il processo evolutivo del sistema sanitario nazionale portò alla riforma del 1968: questa conteneva norme a cui l’Ospedale roerino non poteva adeguarsi se non con costi elevatissimi e probabilmente insostenibili, viste anche le mutate condizioni sociali della popolazione e le maggiori possibilità di spostamento dei singoli.
Da allora, e ancora in questi anni, il complesso viene utilizzato per il trattamento delle post acuzie, ovvero per seguire quei pazienti che devono trascorrere un periodo di convalescenza all’interno di una struttura sanitaria. Oggi gli ultimi piani dell’immobile sono utilizzati come casa di riposo, mentre al primo piano sono allocati alcuni ambulatori dell’ASL 18.
Resta, quell’edificio, un punto fermo per la memoria dei Canalesi e dei Roerini in genere: serve a ricordare la tenacia di un conterraneo che con sensibilità e lungimiranza ha donato qualcosa di suo agli altri, investendo il frutto dei propri talenti a servizio di un bene superiore collettivo.

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