Aramengo, il destino scritto in un nome

Aramengo, il destino scritto in un nome

 di Roberto Savoiardo

Aramengo è stato a lungo deputato come luogo di confino per i condannati di reati relativi al patrimonio. La parola “aramengo” deriva da un’espressione tardo latina utilizzata per designare un allontanamento dalla città: si condannava qualcuno ad andare ad ramingum. Da ciò sono nati la popolare espressione lombardo-piemontese e anche il paese omonimo, che era il borgo più lontano da Asti, quindi ottimamente preposto a ricevere gli insolventi.

Esistono luoghi a cui il tempo ha dato nomi dai suoni sinistri, che rimandano ad antiche credenze. Esistono poi luoghi che acquistano fama radicandosi nella parlata comune, nel quotidiano sfogo delle circostanze della vita. Dalle nostre parti è normale mandare qualcuno, per così dire… “ai servizi” in quel di Roddi (e sarà curioso in altra occasione analizzare l’origine di questa singolare allocuzione); altri, in virtù – o meglio per colpa – delle proprie azioni, finiscono per “andé a ‘ramengu.

Questo modo di indicare la rovina, il fallimento, è piuttosto diffuso in tutto il nord Italia, con varianti dialettali che derivano da “ramingo”, cioè espulso dalla propria terra per aver commesso qualche reato. Tuttavia, tra Langhe e Monferrato questa espressione ha assunto forma di verità, tanto da incanalarsi nell’opinione comune e diventare credenza.

Se si cercano su Internet informazioni sul comune di Aramengo, piccolo centro situato nel Monferrato, si scopre che in passato è stato a lungo deputato come luogo di confino e soggiorno obbligato per i condannati di reati relativi al patrimonio. La parola “aramengo” deriva da un’espressione tardo latina utilizzata per designare un allontanamento dalla città: si condannava qualcuno ad andare ad ramingum, lontano. Da ciò sono nati la popolare espressione lombardo-piemontese e anche il paese omonimo, che era il borgo più lontano da Asti, centro dell’antico Gran Ducato, e quindi ottimamente preposto a ricevere gli insolventi: infatti in passato fu luogo di pena specializzato in “debitori insolventi” (1). Il fatto che ancora nel XVII secolo Aramengo fosse luogo di pena, è suffragato da due elementi: la presenza di un tribunale attivo in quel periodo e il recente ritrovamento di strumenti di tortura nelle antiche segrete della vecchia sede municipale. Fra il Cinquecento e il Settecento, dunque, Aramengo fu luogo di pena. Erano inviati in tale luogo i debitori insolventi, che venivano battuti sulla “pietra del vituperio”: il condannato veniva legato sotto le ascelle con delle corde e issato con una carrucola, qualcuno gli teneva le gambe distese mentre le caviglie erano bloccate da ceppi, quindi era lasciato cadere sulla pietra del vituperio, posta in corrispondenza del sedere (2).

In realtà sappiamo poco dell’origine del centro abitato, per quanto la desinenza -engo, tipica di molti luoghi della zona, rimandi con certezza a un’origine longobarda, probabilmente di un più antico sito romano. Tra l’alto Medioevo e l’età moderna il paese mantenne sempre una connotazione agricola, passando di mano tra le varie signorie senza essere mai sede di casata, sino all’approdo tra i territori sabaudi nel 1586. La presenza di edifici storici rimanda a un passato degno di nota: l’imponente parrocchiale dedicata a Sant’Antonio Abate conserva dipinti attribuiti al Moncalvo ed è sorta con il sostegno della popolazione e grazie all’impiego di vecchi laterizi di palazzi in rovina posti sulla sommità detta “del castello”; bellissime, poi, le cappelle dedicate a Sant’Anna e a San Giorgio, quest’ultima posta nella borgata Masio (3).

Andando ad Aramengo non si trova quindi nessuna di queste lugubri rovine del passato. Non esistendo documenti storici anteriori al Cinquecento, diventa impossibile trovare una fondatezza storica tanto al luogo di confino quanto al tribunale per reati di frode. Sappiamo che esisteva una camera contenitiva e che al suo interno potevano accadere episodi di costrizione, ma questi non si differenziavano da quelli allora comunemente in uso a chi esercitava il potere. La stessa pietra del vituperio non è altro che un pezzo dell’antica chiesa parrocchiale non utilizzato per l’edificazione della nuova. A dare queste informazioni è il professor Beppe Moiso, archeologo e presidente dell’Associazione Amici del Museo Egizio, aramenghese e curatore dell’archivio parrocchiale e comunale.

Resta da capire perché un semplice modo di dire abbia finito per rimandare a un posto ben preciso.

A cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo Aramengo, come molti altri territori, diventa terra di emigrazione. La popolazione, e in particolare i giovani maschi, lasciano i campi per la città o si spingono in Francia meridionale o nell’America, in particolare del sud. La terra ha bisogno di braccia e con la Grande Guerra il loro posto viene preso dai profughi del Veneto che, scampati al conflitto, vengono indirizzati dal governo a “ripopolare” queste zone, beneficiando dell’accoglienza impartita loro dai parroci e dai proprietari alla ricerca di nuovi coloni, oltre che da alcune agevolazioni fiscali. L’immigrazione veneta in Piemonte avvenne così inizialmente di riflesso a uno spopolamento delle parti più attive della popolazione locale. Nel corso del ventennio successivo la popolazione veneta stanziata nel comune crebbe rapidamente, sia per il ricongiungimento delle famiglie, sia per la nascita e il mescolamento di nuovi nuclei, tanto da costituire un terzo degli abitanti e occupare intere frazioni. Nel processo di assimilazione alcune espressioni divennero di uso comune: l’ “andà ramingo” usato nella parlata veneta incontrò un territorio che per qualche motivo rimandava nel nome tale assonanza.

La leggenda nera di Aramengo prese tuttavia corpo nel secondo dopoguerra, quando l’abbattimento del vecchio municipio (divenuto nel tempo residenza privata) restituì i resti in legno di un vecchio giogo da bestiame, con tre fori dal diametro di circa due centimetri. Tanto bastò alla fantasia di un ragazzino coetaneo di Moiso, che ha ricordo diretto degli avvenimenti, perché quell’attrezzo dimenticato chissà quando diventasse lo strumento di supplizio di qualche boia antico, l’avallo fantasioso a un Medioevo fatto di cavalieri e castelli inespugnabili. Con il tempo la diceria prese corpo assimilando un modo di dire diffuso tra la gente a un luogo preciso, e legando questi due elementi a un terzo che colpiva direttamente la fantasia della gente, sia per quel senso di attrazione verso il patimento che spinge il popolo ad appassionarsi e a fantasticare sulla sofferenza più difficile da comprendere, sia per esorcizzare il male patito sino a pochi anni prima, rimandandolo a un tempo lontano in cui certi fatti accadevano ed erano percepiti come normali.

Secondo Hobsbawm «il termine “tradizione inventata” viene usato in un senso generico e tuttavia non impreciso. In esso rientrano tanto le “tradizioni” effettivamente inventate, quanto quelle emerse in modo meno facilmente ricostruibile nell’arco di un periodo breve e ben identificabile – un paio d’anni, magari – e che si sono imposte con grande rapidità. L’invenzione di una tradizione è es­senzialmente un processo di ritualizzazione e formalizzazione caratteriz­zato dal riferimento al passato, se non altro perché impone la ripetitività». (4)

La vita di Aramengo ha incrociato nel tempo il destino di molte persone: è diventato nell’immaginario comune un luogo di pena sia per un particolare “gioco linguistico” (5), sia come palcoscenico – suo malgrado – di un gioco nato da bambini e da qui cresciuto sostituendosi alla verità dei fatti. Tale singolare fama cadrà forse nell’ombra man mano che “andé a ramengu” sparirà lasciando il posto a nuove espressioni. A rimanere sarà la storia di un centro agricolo posto sulla strada che da Chivasso porta ad Asti, lungo la rotta di quella che fu la via Francigena dei pellegrini diretti dal Papa.

 

Note

1 Wikipedia alla voce Aramengo.

2 sito dell’azienda di comunicazione King Leo Multimedia (Aramengo).

3 Moiso, Beppe, Aramengo nella storia, opera in pubblicazione.

4 Hobsbawm e Ranger (a cura di), L’invenzione della tradizione, 1983, Einaudi.

5 Wittgenstein, Ludwig, Trattato logico-filosofico, 1991, Marzorati.

 

  QUESTO ARTICOLO E’ APPARSO SUL N. UNO di “Roero Terra Ritrovata”
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