Il prete delle colline

Il prete delle colline
di Gian Mario Ricciardi

E’ stato lui, padre Bastiano, a dare forma e immagine alla figura del cappellano militare. E l’ha fatto proprio durante l’assedio di Torino. Trecento anni fa. Che persona, che prete, che leader silenzioso della carità. Eppure avrebbe potuto diventare arcivescovo e cardinale di Torino. L’ha rifiutato. La gente l’ha conosciuto sui bastioni a sostenere chi combatteva, negli ospedali accanto ai feriti, tra le macerie ad assistere i moribondi, nei monasteri a far pregare per la vittoria. E a tutti raccomandava la dedizione alla Santa Sindone e alla Madonna della Consolata. Un prete venuto dalle colline delle Langhe, passato e vissuto a Bra, città dove nascerà san Giuseppe Benedetto Cottolengo. Sono gli incroci della storia, sono le coincidenze della vita, sono, forse, disegni difficili da capire, ma sono e restano la cronaca degli anni dei santi sociali.

Un prete venuto dalle colline delle Langhe, passato e vissuto a Bra, città dove nascerà san Giuseppe Benedetto Cottolengo. Sono gli incroci della storia, sono le coincidenze della vita, sono, forse, disegni difficili da capire, ma sono e restano la cronaca degli anni dei santi sociali. La vita del beato Valfrè comincia in anni duri e crudi. Siamo a Verduno, diocesi di Alba. È il 9 marzo 1629 quando nasce in una famiglia povera e numerosa.

La vita del beato Valfrè comincia in anni duri e crudi. Siamo a Verduno, diocesi di Alba. È il 9 marzo 1629 quando nasce in una famiglia povera e numerosa. Ha pochi mesi quando la peste si diffonde in Piemonte (è quella descritta dal Manzoni). Il padre Giovanni Battista si trasferisce con la moglie e una nidiata di bambini in una grotta fuori dal paese e la famiglia riesce così a evitare il contagio. Sebastiano comincia a frequentare la sua parrocchia. I genitori, con i sacrifici di allora (gli stessi di oggi), lo avviano verso gli studi ecclesiastici. Nel 1645 è a Torino. Studia dai gesuiti e diventa chierico. Ma i soldi non bastano mai. Per dare una mano ai suoi comincia a fare il copista. Nel 1649 padre Da Fera e don Ottaviano Cambiani avevano fondato l’oratorio di san Filippo Neri. Ma padre Da Fera muore e l’oratorio resta al solo Cambiani: un personaggio singolare (a dir poco) che si era lasciato conquistare dai precetti di san Filippo. Rimasto solo per otto mesi continua a cantare e pregare con chi viene. E la sua costanza è premiata.
Il 26 maggio 1651 Sebastiano Valfrè gli offre la sua collaborazione. È diventato diacono e può cominciare a predicare. Ed eccoli tutti e due in piazza Carlina, sede del mercato di vini certo non pieno di gente particolarmente portata alla preghiera. Ma a loro non importa. Il Cambiani suona una campanella per attirare la folla e il Valfrè comincia a predicare. È così che padre Bastiano comincia il suo apostolato e, contemporaneamente, punta la sua attenzione sui poveri. Da fedele discepolo di Filippo Neri ispira la sua azione allo stile del servizio.
Uno dei suoi motti è: comandare il meno possibile e usare paterna dolcezza nelle correzioni. È lui a inventare le passeggiate con i ragazzi trasformandole in una azione di educazione e di distensione.
La meta è sempre un bel posto fuori Torino, ma al ritorno c’è la predica sulla passione e l’adorazione del crocifisso. Ed è la predicazione l’impegno principale del suo instancabile apostolato. E subito dopo la confessione e la direzione spirituale. Lo fa sull’esempio di san Carlo Borromeo e di san Francesco di Sales. «Catechismo. Catechismo», ama ripetere. E lascia infatti un completissimo testo di catechesi che per lunghi anni servirà alla Chiesa.

È un personaggio unico che riesce a fare bene e insieme molte cose: predica in piazza, gira per le strade a cercare i poveri, celebra, per la prima volta al mondo, la festa del Sacro Cuore di Gesù. Di notte e di giorno prega, confessa, va nelle carceri come confratello della Misericordia è lui, insieme agli altri, ad accompagnare al patibolo molti condannati. E così, giorno dopo giorno, padre Bastiano continua ad ampliare la sua azione e, contemporaneamente ad accentuare la sua attività verso i poveri. Ha un cuore generosissimo e mani sempre pronte a dare. Attraverso di lui passa un fiume di denaro. «Oggetto delle sue cure – si legge nelle cronache del tempo – sono i malati, i soldati, i moribondi, i prigionieri, i condannati, gli orfani, le vedove, i vagabondi, i mendicanti». È proprio vero ciò che diceva il Cottolengo: «Vengo da Bra, terra di orti e di cavoli. I cavoli trapiantati migliorano». Così anche il beato Valfrè.

Sacerdote nel 1652 diventa teologo laureandosi nel 1656. Vive nell’oratorio di cui è prefetto, maestro dei novizi e fino alla morte “preposto” della comunità filippina: una comunità di preti secolari, non religiosi ma che vivono insieme. Anche in diocesi è valorizzato: prima rettore della compagnia della dottrina cristiana, poi consultore e consulente dell’Inquisizione (sono i mali inevitabili del tempo). È un prete molto umile, ma la sua fama si estende tra i nobili e raggiunge anche la corte. Diviene il confessore del duca Carlo Emanuele II, lo assiste quando muore e lui gli lascia due giornate di terreno accanto alla chiesa di sant’Eusebio dove si trasferisce la piccola comunità dell’oratorio. Su quel terreno nasce l’edificio intitolato a san Filippo, su progetto dell’architetto Guarino Guarini. Il Valfrè, contemplando lo splendore, per lui eccessivo dell’edificio, ne predice il crollo che poi avviene nel 1714. E intanto lui, padre Bastiano, continua la sua opera alternandosi tra le strade e la corte. È per lungo tempo padre spirituale di Vittorio Amedeo II e spesso gli scrive implorandolo di tenere i piedi per terra. «Si comporti il Duca come servo di Dio e non tema con questo di pregiudicare la sua grandezza».
È anche il padre spirituale delle due figlie del sovrano, le principesse Maria Adelaide e Maria Luisa Gabriella. Il rapporto di rispettosa amicizia con Vittorio Amedeo e la possibilità di essere a contatto con tutta la nobiltà cittadina di Torino e del Piemonte, gli permettono di raccogliere offerte, cibo, indumenti per i «senzaniente» che sono un numero consistente in una città senza luce, senza fogne, senza acqua corrente.
In tutto simile alle grandi città del Terzo Mondo con un nucleo di palazzi, il centro, e subito dopo le baracche. Lui è un prete che non si risparmia mai. Dorme quattro ore per notte, confessa, predica, soccorre gli indigenti, i prigionieri, gli ammalati. Un vero grande precursore del secolo dei preti santi di Torino. Nella sua camera, posta sopra la chiesetta dell’oratorio, ha un piccolo letto e un magazzino di vestiti e cibo da distribuire. Lo fa ogni giorno. È proprio Vittorio Amedeo II già alla morte dell’arcivescovo Michele Beggiamo nel 1689 a proporlo alla guida della diocesi.  È stimato, ma non è nobile. Allora “aiutava essere nobile, oggi aiutano altre cose”.

Così al suo posto viene nominato Michele Antonio Vibò dei signori di Praly e di San Martino del Persero. Il religioso che il duca avrebbe voluto al timone della comunità dei credenti di Torino, al tempo dell’assedio ha 77 anni. Un po’ incurvato dall’età, con la tonaca logora e le scarpe rattoppate non teme di spingersi sotto il fuoco nemico per curare i feriti e confortare i moribondi. Si racconta che anche nei momenti di maggior pericolo il suo viso illuminato dagli occhi chiari non perdeva l’aspetto sereno e gioviale. Del resto, secondo lui, Torino non doveva temere l’assedio francese perché poteva contare sulle fortificazioni vere e proprie, ma anche sulle cittadelle della fede dove si pregava e dove si susseguivano le funzioni religiose. Ma torniamo a quella stanza modesta vicino all’oratorio di san Filippo.
Spesso a cercarvi riparo è il duca di Savoia che continua a seguire i consigli del prete venuto da Bra anche quando padre Bastiano decide di non essere più il confessore di un uomo che – diceva lui – alimentava peccaminosi rapporti fuori dalla famiglia. Per lui padre Bastiano, ispirandosi a quanto scritto due secoli prima dall’ambasciatore Giovanni Correr, aveva interpretato il motto sabaudo Fert (che alcuni intendono come Fides est regni tutela) in Faemina erit ruibeato_Valfrena tua, la donna sarà la tua rovina.
Dunque evitata la nomina ad arcivescovo padre Bastiano può continuare a dedicarsi ad assistere i bisognosi e lo fa in un’epoca storica attraversata da molti terribili conflitti. Rappresenta così il meglio dell’impegno pastorale della Chiesa torinese sotto l’azione di tre arcivescovi che governano in un periodo travagliatissimo della storia europea e sabauda, in un drammatico contesto politico-militare e sociale che conosce i tempi peggiori proprio durante il lungo regno di Vittorio Amedeo II, prima come duca, poi come re. In un sermone del 1705 esorta i fedeli ad accettare con rassegnazione la guerra come provvidenziale strumento di redenzione. La sua dedizione è totale. È devotissimo alla Consolata.
Ed è proprio il santuario della Consolata, pericolosamente esposto ai cannoneggiamenti (sulla facciata ci sono ancora oggi i resti di un colpo di cannone), ma uscito indenne dall’assedio a diventare una cittadella della preghiera nella quale i soldati arrivano ogni giorno per essere benedetti e ricevere un’immagine della Madonna con il Bambin Gesù nell’atto di proteggere la città assediata.

Una città nella quale c’è molto da fare. La giornata del beato Valfrè inizia prestissimo con la distribuzione della minestra ai poveri sotto i portici di via Po dove bivaccano gli abitanti delle case vicine alla Cittadella, abbandonate per il rischio dei bombardamenti o perché rese inabitabili dagli incendi. Ecco che cosa c’è scritto di lui nella testimonianza di un suo amico certo più pauroso di lui.
«Quando il Servo di Dio udiva che si davano assalti dalli assedianti, mi mandava alla Cittadella con un gran fiasco di olio Santo per soccorrere i poveri soldati, i quali uscivano da far testa alli nemici, chi feriti, chi bruciati dandomi egli ordine di soccorrere tutti con carità…
Aiutando tutti a recitare atti di fede. Temeva io più volte d’andare per il gran pericolo che correvo ed avevo incontrato più volte… ma lui mi diceva andate pure, non temete, travagliate volentieri, sostenete quella povera gente, Dio vi aiuta».
Ama distribuire medagliette sacre a chi incontra per la strada, oppure corone del rosario o immaginette sacre: ecco un altro modo genuinamente semplice di un grande per testimoniare la fede. Durante l’assedio, di notte infaticabile vaga negli accampamenti dei soldati per evitare loro d’incontrare prostitute, ma anche per regalare sorrisi e trasmettere speranza.
È sul campo di battaglia che incontra Pietro Micca e ne diviene il confessore. Tuttavia non si limita a correre in aiuto dei militari o dei popolani, ma anche dei ricchi.

La sua influenza, in uno dei periodi più travagliati della storia di Torino, è stata veramente consistente. Una influenza provvidenziale per i Savoia che in questo periodo hanno rapporti difficili con le minoranze valdesi ed ebree e vanno a urtare non solo una volta la sensibilità del Papa.

 

Il 13 agosto il comandante Daun gli chiede un colloquio nella sacrestia della chiesa di San Filippo. Il nobile ufficiale è estremamente preoccupato per le sorti di Torino a causa della mancanza della polvere nera. Dopo essersi raccolto in preghiera padre Bastiano pronuncia parole rassicuranti e subito dopo va a rincuorare i combattenti ripetendo la profezia di suor Maria degli Angeli: «Alla Bambina (la natività, quindi l’8 settembre che a Bra è la festa della Madonna dei Fiori) saremo liberi». Il 29 agosto fa cominciare una novena in tutte le chiese della città. Nove giorni dopo Torino viene liberata. Il Valfrè che intanto ha suggerito al duca di legarsi alla Madonna con un voto, estende le sue opere di pietà ai soldati francesi prigionieri ai quali spesso porta una moneta con l’immagine della farfalla, che in piemontese si dice parpajola. Così i detenuti francesi gli danno il soprannome di père Parpajole.
La stima di cui gode a corte dà al sacerdote venuto dalle colline braidesi la possibilità di svolgere un’azione sociale e politica a vari livelli.
In pratica gli è riuscito un azzardo: far dialogare la borghesia con il popolo. Consigliere tra i più ascoltati del duca, più volte gli ricorda per scritto che la giustizia deve precedere la carità. La sua influenza, in uno dei periodi più travagliati della storia di Torino, è stata veramente consistente. Una influenza provvidenziale per i Savoia che in questo periodo hanno rapporti difficili con le minoranze valdesi ed ebree e vanno a urtare non solo una volta la sensibilità del Papa. Amato e stimato dagli ebrei si reca spesso nel ghetto a visitarli.
Non dobbiamo certo attenderci da lui, figlio del suo tempo, il rispetto della libertà di coscienza come dimostra il battesimo amministrato a un bambino ebreo, in fin di vita, all’insaputa dei genitori. O il rifiuto di restituire i figli a dei genitori valdesi espatriati.
Altri tempi, altre sensibilità. È lui, in questo contesto, a suggerire la costituzione di una scuola nella quale formare il personale diplomatico della Chiesa. L’Accademia Ecclesiastica non ha dimenticato chi ne ha ispirato la nascita e continua a ricordarlo. Padre Bastiano vive fino alla soglia degli ottantun anni e si spegne il 30 gennaio 1710. Poche ore prima è il duca stesso a volergli stare vicino.
Dopo avergli chiuso gli occhi esclama: «Io ho perso un grande amico e i poveri un grande protettore e padre». Dopo la morte una sua fedele, la pittrice Fea, gli fa il ritratto. Un’immagine molto importante perché lui ha sempre evitato di farsi ritrarre. Testimoni dell’epoca dichiarano che la sepoltura fu procrastinata molto per dar tempo a tutti di rendergli omaggio. Fu un omaggio lungo e, per certi versi, anche discutibile visto che furono molti quelli fermati mentre, salutandolo, cercavano di portarsi via un capello o altro come reliquia. Un profumo di santità il suo che, come spesso avviene anche oggi, non è stato indenne da eccessi di devozione.
Nel 1834 papa Gregorio VXI lo iscrive nel libro dei beati. Un santo che, come Giovanni Battista, ha annunciato e anticipato il secolo meraviglioso e irripetibile dei santi sociali. La fama di santità del “nuovo san Filippo”, dopo la morte non fa che crescere.
Soprattutto a Torino ma anche in Piemonte si diffonde la sua devozione. Con san Carlo Borromeo e san Francesco di Sales viene proclamato patrono del Convitto Ecclesiastico di san Francesco e, sempre a Torino, nel 1871 gli viene intitolato il primo circolo della gioventù cattolica. Dopo le solenni celebrazioni, nel 1934, del centenario della sua beatificazione, in molti, ingiustamente, si sono dimenticati di lui.
Riposa nella stupenda chiesa, guariniana e juvarriana di San Filippo. Torino, ma anche altre diocesi lo ricordano il 30 gennaio. E anche Bra potrebbe ricordarlo di più come pioniere instancabile dei poveri.

0 QUESTO ARTICOLO E’ APPARSO SUL N. ZERO di “Roero Terra Ritrovata”
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