A Carnevale ogni scherzo…Usanze e riti a Corneliano

Febbraio era mese di trapasso dall’inverno alla primavera, quando il freddo è quasi finito e la natura si appresta al risveglio. Era mese di importanti festività popolari legate alla fertilità, di origine pagana, celebrate per propiziare il nuovo anno produttivo. Il Carnevale, fra queste, è quella che, con più forza, entra a far parte dell’immaginario collettivo. Si viveva, per tutto l’anno, nel ricordo delle ribòte carnevalesche e si aspettavano quelle venture.

Nel 1922, nel bollettino parrocchiale di Corneliano Per il Bene, don Calliano scriveva a proposito del mese di febbraio: «È il tempo in cui nei nostri paesi di campagna si combinano e si stringono i matrimoni». L’inverno è la stagione della socialità contadina, delle vijà nelle stalle di una famiglia vicina per trascorrere qualche ora di compagnia: spesso si univano giovani in cerca di moglie, che cominciavano a frequentare la famiglia della ragazza per farsi conoscere e progettare un possibile matrimonio. Ma febbraio era anche mese di trapasso dall’inverno alla primavera, quando il freddo è quasi finito e la natura si appresta al risveglio. Era mese di importanti festività popolari legate alla fertilità, di origine pagana, celebrate per propiziare il nuovo anno produttivo. Il Carnevale, fra queste, è quella che, con più forza, entra a far parte dell’immaginario collettivo. Si viveva, per tutto l’anno, nel ricordo delle ribòte carnevalesche e si aspettavano quelle venture. E, se nello sterile agnosticismo contemporaneo non è dato neppure di sapere, la maggior parte delle volte, perché si festeggi Carnevale, e per quale motivo alcuni lo festeggino nella prima domenica di Quaresima (Carnevale vecchio o Carvé Vej), può essere utile aprire una finestra su uno dei Carnevali più grandi del Roero: il Carvé Vej di Corneliano e Piobesi.

Una grossa cicogna di 12 metri di altezza, carica di "contadinelle", aprì la sfilata nel febbraio 1969, durante la prima domenica di Quaresima. Quella cicogna aveva dato i natali alla Pro Loco, che esordiva proprio con il Carvé vej.

Una grossa cicogna di 12 metri di altezza, carica di “contadinelle”, aprì la sfilata nel febbraio 1969, durante la prima domenica di Quaresima. Quella cicogna aveva dato i natali alla Pro Loco, che esordiva proprio con il Carvé vej.

Don Calliano e le Quarantore

I furori moralistici e le accorate predicazioni di parroci e suore di campagna contro il Carnevale non sono un vago ricordo dal sapore di pergamena. Nel 1925, don Calliano scriveva sul bollettino: «È il tempo del maggior guadagno per il demonio, delle maggiori offese per il Signore, delle maggiori perdite per le anime». Ma ancora nel 1951 ammoniva: «… non mascherarsi da pagliacci e tanto meno con vesti di altro sesso e star lontano dai balli». Nel febbraio del 1954, dedicava un’intera pagina ai balli di Carnevale, riportando gli articoli del Sinodo Diocesano che ne condannavano la dissolutezza. Don Calliano non poteva certo sopportare il fruscio di gonnelle e gli ammiccamenti di giovani ardenti. Ma era un terreno di battaglia troppo impervio per il fervoroso sacerdote. Tant’è che, come in altri paesi, anche a Corneliano il parroco chiedeva ai fedeli di celebrare le Quarantore. Le Quarantore, ufficialmente, non erano legate al Carnevale, ma, essendo questo periodo occasione di disordini, stravizi e ubriachezze, si ritenevano necessari momenti di intensa preghiera per l’espiazione dei peccati e per il controllo delle persone. A Corneliano, le Quarantore di don Calliano, «secondo l’antica consuetudine», hanno luogo «nei tre ultimi giorni di Carnevale (…) per riparare le offese che si fanno al Signore in questi giorni di pazzie» (Per il Bene, febbraio 1949). Don Calliano detta le norme per «farle bene»: la principale indicazione è di sentire ogni giorno la Santa Messa, che prevedeva l’esposizione del Santissimo, e di partecipare alla sua adorazione almeno un’ora al giorno. Il Santissimo, infatti, veniva adorato per i tre ultimi giorni di Carnevale e ciascuna delle Compagnie presenti in paese (Luigini, Battuti, Figlie di Maria e Umiliate) assegnava ai propri membri un turno di adorazione. In tempi in cui la religione compenetrava ogni angolo recondito della vita di ciascuno, tutti i Cornelianesi erano iscritti a una compagnia: i giovani ai Luigini, gli adulti ai Battuti, le ragazze alle Figlie di Maria e le donne alle Umiliate. Giocoforza, tutti erano coinvolti in questa adorazione continua. Si racconta che, a Corneliano, qualche uomo non avesse mai voglia di presenziare alle adorazioni e offrisse un pintone di vino a chi lo sostituiva. Durante le Quarantore, era prevista la partecipazione di un predicatore straordinario. Naturalmente, nei tre giorni di preghiera era fatto obbligo di «non profanare questi santi giorni con l’ubriachezza, divertimenti pericolosi, canzonacce e altri peccati».

 

Il mondo alla rovescia

Ma don Calliano lottava contro i mulini a vento. L’allegria assoluta e rigeneratrice del Carnevale scompaginava l’ordine sociale e travolgeva i rigidi dogmi ecclesiastici. Il riso e lo scherno, vere libertà del popolo, capovolgevano il mondo per qualche giorno; la festa trascendeva la miseria spirituale e materiale del contadino. Per una volta, era lecito dare fondo alle riserve di cibo: gli anziani ricordano che, mentre le donne in casa si davano da fare per impastare e cuocere le bugie, gli uomini giravano per il paese, a piedi o sui carri, bevendo vino a garganella, mangiando pasta (che cuocevano direttamente sui carri) o enormi “panini”; altri giravano di casa in casa a mangiare «raviore». Non mancavano, nei locali del paese (ad esempio, la vecchia trattoria “Rosa”, in fondo alla piazza), i grandi pranzi e le abbuffate, anche in vista dei sacrifici quaresimali.
In generale, possiamo dire che, negli ultimi due secoli, il Carnevale cornelianese sia caratterizzato dalla spontaneità e dalla de-istituzionalizzazione. Non esisteva un comitato promotore dei festeggiamenti come nel Medioevo, quando le abbadìe (o badìe, poi confluite nei gruppi di ragazzi che festeggiavano la leva) si occupavano delle manifestazioni più importanti: a un certo momento dell’anno, la gente si riversava in piazza, più o meno numerosa, e festeggiava. Non si andava a vedere il Carnevale, lo si faceva. Ciascun membro della comunità era coinvolto in prima persona, in una gara all’eccesso, alla trasgressione, a chi “la faceva più grossa”. La gradassata era il segno che, per qualche giorno, l’ordine e le gerarchie erano soppresse: del resto, il Carnevale non è mai stato scevro di connotazioni “civiche” o addirittura “politiche”. È evidente come, in questo contesto, il ruolo della donna fosse per lo più marginale: non era facile trasgredire senza essere considerate “di facili costumi”.
Così, è ancora vivo nelle menti dei cornelianesi il ricordo di Francesco Blardone che serviva vino bianco dentro vasi da notte. Altre testimonianze riferiscono di carri di giovani che, dai vasini da notte, raccoglievano marmellata con le mani o trangugiavano vino bianco, simulando la coprofagia. Anche a Corneliano, poi, chi veniva sorpreso nel giorno di martedì grasso a lavorare nei campi, era legato con la corda o con la salsiccia, segno evidente di un sovvertimento della quotidianità. Altri racconti confermano l’esistenza dell’usanza del barbé (farsi fare la rasatura in un luogo pubblico o su un carro) e del molìta (arrotino: si chiedeva al padrone di casa se voleva affilare il coltello, si improvvisava l’operazione, poi si entrava e si beveva).

Ancora un'immagine del Carvé vej del 1969.

Ancora un’immagine del Carvé vej del 1969.

L’allegria assoluta e rigeneratrice del Carnevale scompaginava l’ordine sociale e travolgeva i rigidi dogmi ecclesiastici. Il riso e lo scherno, vere libertà del popolo, capovolgevano il mondo per qualche giorno; la festa trascendeva la miseria spirituale e materiale del contadino. Per una volta, era lecito dare fondo alle riserve di cibo: gli anziani ricordano che, mentre le donne in casa si davano da fare per impastare e cuocere le bugie, gli uomini giravano per il paese, a piedi o sui carri, bevendo vino a garganella, mangiando pasta (che cuocevano direttamente sui carri) o enormi “panini”.

Animali, canti e rappresentazioni

Nel Carnevale, effettivamente, confluiscono significati molto diversi fra loro: antichi riti invernali e canti tramandati oralmente hanno finito con l’esser legati al Carnevale, in una tradizione culturale fluida e dinamica, in cui tutto si mescola e nulla è fissato per scritto o imprigionato in rigidi schemi. Così, dobbiamo constatare nel Carnevale cornelianese la presenza di animali mitici e di canti di questua. Gli animali del Carnevale sono l’orso, la capra e il tacchino. L’ors era presente in molti carnevali del Roero: si prendeva un tipo bonaccione, lo si faceva bere, lo si cospargeva di miele e gli si incollavano piume di pollo addosso. Costui spaventava la gente fuori dalla Chiesa, faceva versi e, talora, era accompagnato da un domatore. A Corneliano, è dubbio che vi fosse questa tradizione; tuttavia, è ancora viva l’immagine di Candido Blardone (Candìn) che, a metà degli anni Cinquanta, in occasione di un Carnevale si era presentato in piazza vestito da orso e accompagnato da un domatore. Candìn era di Corneliano, ma abitava a quel tempo a Torino e aveva affittato la maschera proprio nel capoluogo piemontese. Probabilmente, il travestimento fu frutto di un’idea estemporanea, ma non è escluso che Candìn avesse davanti agli occhi le immagini dei passati carnevali cornelianesi. La crâva, invece, si portava di casa in casa, in cambio di cibo e vino. Si trattava di un rituale diffuso in tutti i paesi del Roero. A volte si recitava un canovaccio con diversi personaggi (la capra, la padrona della capra, il veterinario), che iniziava con la frase «Padrôn-a, veuri caté sa crâva? A fa do lacc bon, è bela, è brava, veuri caté sa crâva?» e proseguiva con le cure del veterinario e la morte della capra. Altre volte, si trattava di rappresentazioni più estemporanee e più semplici, con capre vere che venivano munte o con capre in legno. A Corneliano vi sono tracce di questa tradizione. Non è un caso, forse, che anche nei moderni Carvè Vej le maschere siano accompagnate da una capra. La tradizione del pitu, invece, ha probabilmente origini più antiche e, per Corneliano, si possono registrare alcune testimonianze. Sembra che, nei pendii sotto la torre o sotto la chiesa di Santa Elisabetta, quando c’era la neve si buttasse dell’acqua la notte. Si formava così la slesa. Il mattino successivo, si appendeva il tacchino a un albero e si scendeva con una slitta, cercando di colpirlo “al volo” con un bastone! In altri paesi lo si decapitava addirittura, dopo averlo processato. Sembra che questo rito possa ricollegarsi ad antiche forme di purificazione della comunità, anche se, nei secoli a noi vicini, il rituale veniva compiuto probabilmente senza la consapevolezza del suo significato e rappresentava più che altro un momento di aggregazione, oltre che di dimostrazione di destrezza e di forza fisica, essenziali in una società votata al lavoro di braccia. Nel Carnevale, come accennato, confluiscono anche canti di questua invernali e antiche rappresentazioni. Grazie al prezioso lavoro svolto da Ettore Contino e Beppe Giacone, è stato possibile ricostruire le strofe e le melodie di questi canti. Oggi si sa che, in frazione Reala, era diffuso il Canté Martìn-a: un gruppo itinerante girava di casa in casa, cantando e chiedendo di entrare. Dall’interno rispondevano di attendere ancora un po’, instaurando un dialogo che seguiva un canovaccio. Alla fine, gli esterni venivano fatti entrare e veniva loro offerto vino, cibo o altra ricompensa. Non si trovano tracce, invece, della tradizione dei Magnìn (i calderai), per cui alcuni giovani, con la faccia e le mani imbrattati di caligine, sporcavano chiunque capitasse loro a tiro, battevano pentole e ciapete (dischi di lamiera fissati a manici di legno) e si recavano di casa in casa a cantare per ricevere vino o cibo. Nei paesi limitrofi, comunque, la tradizione è consolidata. Fra Montaldo e Corneliano i Siàire (falciatori) mimavano, sempre casa per casa, il gesto della falciatura dell’erba, recitando un canovaccio; come sempre, la rappresentazione si concludeva con l’invito del padrone di casa a entrare o con qualche ricompensa. I testi di queste rappresentazioni sono stati ricostruiti, fra gli altri, anche da Ettore Contino. Lo stesso Contino, da una testimonianza di sua nonna (Giustina Giorello Contino, classe 1885), era riuscito a ricostruire la rappresentazione dei Mesi e delle Stagioni, che venivano rappresentati da gruppi itineranti di giovani vestiti da Primavera, Estate, Autunno e Inverno. Corneliano vanta la paternità anche di un “canto narrativo”: la Fiorentina. La narrazione della Fiorentina si collega a un filone del canto epico-lirico fiorito in Piemonte molti secoli or sono, comune a tutte le letterature celtico-romanze. Del resto, la trama e lo schema narrativo della Fiorentina presentano molte analogie con altri canti popolari, anche di altre regioni italiane. Il ruolo dei personaggi veniva svolto da attori improvvisati e la stessa rappresentazione veniva ripetuta per più sere, facendo il giro delle stalle. La storia narra le vicende della principessa Fiorentina che, contro il volere di suo padre, vuole sposare un cavaliere. Il re si oppone al matrimonio perché il pretendente è di basso ceto e vorrebbe invece che Fiorentina sposasse il re di Brianza, per farsene un alleato. Siccome Fiorentina rifiuta e minaccia di farsi monaca, il re ordina di farle tagliar la testa; ma poi, su suggerimento di un cortigiano, la vende ai mercanti della Turchia, che stanno girando il mondo per cercare una moglie per il Sultano. Successivamente il re, minacciato dal pretendente, cerca i mercanti della Turchia e riscatta la Fiorentina, che quindi può ricongiungersi al suo amato. La Fiorentina, dunque, costituisce una piccola peculiarità di Corneliano. Non è invece peculiare di Corneliano L’ Carvé o l’è mort, un breve canto che celebra la fine del Carnevale, quando «le fije pioro fòrt». Diversamente rispetto ad altri paesi, pare che la fine del Carnevale non fosse accompagnata dal falò di un pupazzo o di un mucchio di fascine. Come per ogni paese del Roero, poi, i gruppi di leva più vivaci creavano canti per il Carnevale. Ettore Contino ne conserva uno del 1928, L’ Carvé d’ Curgnan d’Alba, ma ne esistono probabilmente molti altri.

La prima Pro Loco di Corneliano, guidata da Pierin Corino, pensò alla riproposizione del Carvé vej, anzichè del tradizionale  Carnevale del martedì grasso. Era il 1969 e a Pierin Corino non poteva certo essere contestato alcun sentimento anticlericale. Fu l’intera Pro Loco a decidere così; da allora, il Carnevale di Corneliano è “vecchio”.

Scene da un carnevale spontaneo con "l'orso" di fine anni Cinquanta.

Scene da un carnevale spontaneo con “l’orso” di fine anni Cinquanta.

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Carvè fra politica e modernità

Perché il Carnevale di Corneliano è “vej”, vecchio, celebrato cioè la prima domenica di Quaresima? La risposta è difficile a fornirsi. Innanzitutto, dalle testimonianze raccolte nel tempo e dai documenti, sembra chiaro che la maggior parte dei festeggiamenti si svolgeva il giovedì grasso (anche gli uffici erano chiusi), la domenica e il martedì grasso, prima del mercoledì delle Ceneri. Celebrare il Carnevale in tempo di Quaresima costituiva una trasgressione che, forse, la maggior parte dei Cornelianesi non si sarebbe mai sentita di affrontare. Probabilmente, qualcuno festeggiava anche la prima domenica di Quaresima; ma erano gruppi isolati, magari di giovani, mai paghi di feste e di vino, in segno di trasgressione e ribellione. C’è chi ritiene che “guerre” anticlericali abbiano trovato spazio anche a Corneliano, tanto da far pensare a vere e proprie prese di posizione da parte di personaggi di un certo rilievo all’interno della comunità, come potrebbe essere appunto un festeggiamento in tempi “proibiti” dalla Chiesa. In questa stuzzicante lettura, c’è chi colloca la tradizione del Carvé vej all’interno della contrapposizione politica, molto forte in paese, tra Partito dei Liberali, più vicino alle gerarchie ecclesiastiche, e Partito dei Contadini, laico e autonomista, sfociata nella vittoria di questi ultimi contro i sgnori nel 1946. Ma è solo una delle tante letture. Flavio Benevello racconta ad esempio che, durante gli anni Sessanta, prima che venisse fondata la Pro loco, assieme ad amici aveva organizzato alcuni Carvé vej a Corneliano, memore dei Carnevali festeggiati in Lombardia, durante il periodo di leva militare, seguendo il calendario ambrosiano, e quindi in ritardo di una settimana. Sta di fatto che la prima Pro loco di Corneliano, guidata da Pierin Corino, pensò alla riproposizione del Carvé vej, anziché del tradizionale Carnevale del martedì grasso. Era il 1969 e a Pierin Corino non poteva certo essere contestato alcun sentimento anticlericale. Fu l’intera Pro loco a decidere così; da allora, il Carnevale di Corneliano è “vecchio”, e ciò è ormai fuori discussione. Una grossa cicogna di 12 metri di altezza, carica di “contadinelle”, aprì la sfilata nel febbraio 1969, durante la prima domenica di Quaresima. Quella cicogna aveva dato i natali alla Pro loco, che esordiva proprio col Carvé vej. In quel Carnevale fu riproposta la Fiorentina, cantata e rappresentata in piazza con costumi medievali. I costumi, ovviamente, sono una piccola licenza che si è presa la Pro loco, visto che gli antichi mai avrebbero vegliato fra le stalle, qualche decennio prima, con tanto di pizzi e merletti. Nel 1970 il corteo fu aperto da una gigantesca cornucopia realizzata in collaborazione con la Pro Corneliano di Torino, a simboleggiare la fortuna che molti cornelianesi avevano trovato nel capoluogo piemontese. Nel 1971, invece, fu la volta di una mezzaluna, a ricordo delle imprese spaziali di pochi anni prima. Poi il Carnevale fu sospeso per qualche anno. Tra il 1978 e il 1988 ci furono piccole manifestazioni e alcune rappresentazioni della Fiorentina in piazza. Si riprese solo nel 1988, nell’attuale formula di collaborazione fra le Pro loco di Piobesi e Corneliano.

Le maschere: Ciaciarèt e Turibia

La maschera locale di Ciciarèt.

La maschera locale di Ciciarèt.

È dubbio se sia mai esistita una maschera tradizionale di Corneliano. Secondo alcune testimonianze, in uno dei Carvé vej anni Sessanta il carro principale era una specie di biga che trasportava personaggi romani, tra cui Cornelia, che doveva diventare la maschera di Corneliano.
In occasione del Carvé vej 1978, tuttavia, la Pro loco ha concretizzato la maschera di Corneliano: Monsû Ciaciarèt, interpretata per la prima volta da Candido Blardone. Concretizzato, non inventato, perché Corneliano ha sempre avuto la sua maschera, anche se mai interpretata. Si è trattato di codificare i tratti fisici e psicologici del Cornelianese nell’immaginario comune locale: tuttora i Cornelianesi vengono definiti nell’albese «i ciaciarèt ’d Corgnan» per la loro parlantina sciolta e per la loro abilità di commercianti. Turibia d’la caden-a rusa è invece la maschera di Piobesi, nata nel 1988. Anche questa maschera non è del tutto inventata: la località Catena Rossa di Piobesi, così chiamata perché un tempo la provinciale incrociava con una strada secondaria delimitata da una catena verniciata di minio (antiruggine di colore rosso, appunto), nell’immaginario popolare era tradizionalmente il luogo dove si davano convegno le masche. Turibia è però una masca buona, innamorata di Ciaciarèt. I posteri, forse, ci sapranno dire se il loro amore è destinato a trionfare…

Alessandro Cassinelli e Giuseppe Giorello

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