Francesco Delpero, il bandito che fece tremare il Re

Francesco Delpero
Il bandito che fece tremare il Re
(Canale, 18-09-1832 – Bra, 31-07-1858)

di Milo Julini

 

E’ il 1857: siamo nella casa di una famiglia borghese di Torino all’ora di pranzo. Sono tutti seduti a tavola e, quando la cuoca porge al capofamiglia la Gazzetta del Popolo appena arrivata, questi dopo aver dato una scorsa ai fogli, esclama: «Ah! l’hanno agguantato finalmente!». Il babbo sta parlando del bandito Francesco Delpero, del quale il giornale riporta le fasi del drammatico arresto avvenuto alcuni giorni prima a Vigone. Tutta la famiglia prorompe in una esclamazione di gioia e di meraviglia, poi «tutti zitti, immobili, a sentir la lettura d’una corrispondenza da Vigone, nella quale era raccontato l’arresto dell’assassino famoso, che da molti mesi atterriva e inorridiva il Piemonte; l’apparizione inaspettata dei carabinieri nell’osteria dove egli stava desinando con uno dei suoi, la lotta accanita, la resistenza furiosa del mostro, forte come un toro e svelto come una tigre, le varie vicende di quella mischia disperata». Quando l’articolo dice che alla fine Delpero si è arreso, tutti tirano un sospiro di sollievo.
Così ricostruirà questo quadretto familiare uno dei figli presenti, divenuto scrittore e giornalista: Edmondo De Amicis, nel racconto La Ginevra italiana, un capitolo del libro Alle porte d’Italia (1892).

Con l’arresto a Vigone si chiude la disperata avventura di Francesco Delpero, bandito che rappresenta l’esatto contrario del brigante bello e cavalleresco. Delpero è «un giovine sui ventisei anni, d’alta statura, coi capelli neri e la barba nera, d’una pallidezza di morto» secondo il ritratto di De Amicis. Alla ripugnanza fisica si accoppia quella morale. Parlando di Delpero, spesso si ricorre al bestiario criminologico. Il pubblico ministero Medardo Masino lo definisce «fiera della quale le cronache criminali appena ricordano altra più sanguinaria». «Meritatamente chiamato una vera tigre per il gran numero dei suoi omicidii e la leggerezza con cui li aveva compiuti» scrive Luigi Nicolis di Robilant, il biografo di san Giuseppe Cafasso (1912).

Torniamo a De Amicis, bambino quando Delpero compiva le sue imprese: «Nessun altro masnadiero ci aveva mai ispirato tanto terrore e tanto ribrezzo. Era perché il Delpero non aveva mai mostrato neppur uno di quei rari e istantanei sentimenti di mansuetudine che passan per l’animo anche ai malfattori più tristi, […] egli era un assassino tutto di un pezzo, una belva crudele e stupida, che uccideva inutilmente, e torturava prima di uccidere, e infieriva contro i cadaveri; uno sgozzatore di ragazzi, acceso di libidini orrende, perverso e feroce fin nel midollo delle ossa».

Non stiamo parlando di un brigante gentiluomo.

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Immagine riprodotta dal libro di Milo Julini, “Il terrore del Roero. Storia e leggenda del famigerato bandito Francesco Delpero: 1857-1858”, Libreria Piemontese Editrice, Torino 1999. Due condannati al bagno penale uniti «per forza di legge». Sullo sfondo il porto di Genova. Disegno di Casimiro Teja tratto dalla serie “Gli indivisibili”. (Il Pasquino, 1858).

Francesco Delpero, nato a Canale il 18 settembre 1832, dopo aver lavorato – per poco e di malavoglia – a Racconigi come calzolaio, si dà al crimine. È condannato a venti anni di lavori forzati da scontare nel bagno penale di Genova, cui se ne aggiungono altri cinque per un tentativo di evasione. Riesce a evadere il 1° maggio 1857, quando alcuni forzati, al rientro dal lavoro al cantiere della Foce, secondo un piano prestabilito, fingono una rissa, poi si avventano sui guardiani. Uno di questi è disarmato e ucciso col suo stesso fucile proprio da Delpero. Il pronto intervento di carabinieri e soldati permette la cattura di quasi tutti i fuggiaschi, ma Delpero può dileguarsi e ritornare in Piemonte. Rimane in libertà poco più di tre mesi e, dalla fine di giugno, organizza una banda con cui compie le classiche imprese dei malfattori di campagna. Derubano i viaggiatori, bloccano vetture e carretti al ritorno dalle fiere, penetrano di notte in cascine isolate, si scontrano con i carabinieri. Delpero ha spesso la mano pesante: a Monteu Roero assassina a sangue freddo un anziano contadino e tenta di bruciarne il cadavere, a Pocapaglia sgozza due ragazzi perché testimoni pericolosi, a Guarene tortura a coltellate una donna affinché riveli il nascondiglio dei soldi e finisce così per provocarne la morte. Ha dichiarato a una delle sue vittime che per lui uccidere un uomo era «lo stesso che uccidere un pollo». Così, quando due carabinieri di pattuglia a Santa Vittoria gli chiedono i documenti, Delpero li fredda a fucilate. La banda terrorizza i dintorni di Bra e l’eco delle nefaste imprese rimbalza a Torino, capitale del regno sardo. I fatti criminali, letti in chiave politica dai numerosi quotidiani, scatenano feroci polemiche che travolgono il ministro dell’Interno, Urbano Rattazzi, già compromesso per la grave situazione dell’ordine pubblico in Torino e per lo scoppio di un moto mazziniano a Genova con la partecipazione di Carlo Pisacane. La spedizione di Sapri, ricordata dalla poesia di Luigi Mercantini (quella dei «trecento giovani e forti»), e le imprese di Delpero sono infatti contemporanee e hanno per così dire lo stesso effetto politico!

Si scatena la caccia ai malfattori. La sera del 5 agosto 1857, Delpero è arrestato nell’Albergo dell’Orso a Vigone. È la vigilia del mercato e il maresciallo dei carabinieri con un appuntato fa un giro di controllo delle osterie. All’Albergo dell’Orso, l’oste lo informa di avere in sala due brutti ceffi. Alla richiesta dei documenti, uno dei due, di alta statura, mostra un passaporto chiaramente falso. Arriva intanto un terzo carabiniere e questo individuo sospetto estrae una pistola e spara contro i militari, ma l’arma fa cilecca. Soltanto dopo un lungo e feroce corpo a corpo, i carabinieri riescono a bloccarlo. È identificato come Delpero. È arrestato come suo complice anche l’individuo in sua compagnia, Angelo Allegato di Gattinara.
La sera del 6 agosto, Delpero con Allegato è trasferito a Pinerolo su di un carro scortato da carabinieri e da cavalleggeri. La notizia della sua cattura si è sparsa per le campagne circostanti e a Pinerolo è accorsa una folla di curiosi. Con un vagone cellulare della ferrovia di Pinerolo, i due sono poi trasferiti a Torino dove, la mattina del 9 agosto, sono chiusi nelle carceri senatorie, con grandi misure di sicurezza. I giornali di ogni tendenza politica elogiano i carabinieri che hanno eseguito la cattura, il maresciallo Giuseppe Solaro, il vice brigadiere Agostino Camalleri e l’appuntato Bartolomeo Fasano.Julini_3

S’inizia l’istruttoria sui crimini di Delpero, che confessa soltanto pochissimi reati, non troppo compromettenti. Gli inquirenti raccolgono però prove consistenti che lo inchiodano ad alcune gravi imputazioni: l’uccisione del guardiano Bosio a Genova, la rapina a mano armata a danno del dottor Amidei sulla strada Savigliano-Lagnasco, l’assalto all’omnibus di Bra sulla strada Bra-Alba con conducente e viaggiatori derubati, la rapina con «barbaro omicidio» dell’anziano contadino Bartolomeo Bellis a Monteu Roero, con scempio del cadavere, l’uccisione a Pocapaglia di due ragazzi, Pietro Rivetto, vaccaro, e Agnese Brizio, entrambi di 12 anni, l’aggressione a 14 carrettieri di Bra sulla strada Bra-Carmagnola in località la Crocetta, la rapina in una cascina di Guarene, con uccisione di Delfina Scaparone Merlo, e l’assassinio di due carabinieri a Santa Vittoria. Delpero non fa nessuna rivelazione sui suoi complici. Come scrive il pm Masino: «a lunghi e particolari interrogatori sottoposto, poco di sé, nulla dei compagni […] egli confessava».

La ricerca dei complici langue sino al 6 novembre 1857, quando il delegato di pubblica sicurezza di Alba, Gerolamo Pelissa, invia un rapporto dove suppone che Delpero, fuggito da Genova, si sia recato a Bra presso la malfamata famiglia Dogliani e poi indica numerosi individui sospetti.

Il giudice istruttore li fa arrestare e inizia indagini che porteranno a concreti risultati. Ecco gli arrestati. Maria Caretto vedova Dogliani, di Bra, detta Madrina, ha 59 anni ed è descritta come «la perdizione della gioventù», come una megera che ha indotto la figlia Marianna a prostituirsi. Marianna, nata nel 1836, lavora in una filanda. Secondo il delegato di Alba, la vedova Dogliani e la scostumata figlia Marianna ospitavano gente di malaffare: Delpero si era recato a casa loro perché al bagno penale di Genova aveva fatto amicizia con Bartolomeo Dogliani, condannato ai lavori forzati a vita, e ne aveva conosciuto la madre e la sorella che andavano a visitarlo. Il 25 novembre si costituisce Giovanni Dogliani, detto Zan, un altro figlio della vedova Dogliani, nato nel 1838. Giovanni lavorava come zoccolaio, è già stato carcerato per oziosità ed è qualificato dalle autorità come cattivo soggetto. Vi sono poi due giovani, con piccoli precedenti penali. Sono Antonio Bonino, detto Tabachin, conciatore di 24 anni e Francesco Piumati, detto L’euj, anche lui conciatore di 24 anni. Altri due, Giovanni Aimasso detto Burri, conciatore nato nel 1838, e Giuseppe Piovano, garzone “vermicellaio” (pastaio) nato nel 1836, sono incensurati. L’unico arrestato non braidese è Giacomo Nervo, detto Colin o Corin, nato a Sommariva Perno e residente a Vezza, di 29 anni. Nervo, già carcerato per percosse, commercia in bestie da soma, ma nel suo paese lo accusano di battere le campagne con la scusa del suo lavoro per associarsi con malfattori.

A carico di Giovanni Aimasso, detto Burri, pesa un forte indizio di colpevolezza, perché ha rivenduto a un amico un orologio rubato a Guarene. Ed è proprio Aimasso, già pochi giorni dopo il suo arresto, a fare luce sulle vicende della banda Delpero. Aimasso diviene infatti propalatore e, come un pentito dei nostri giorni, collabora con la giustizia, con la differenza che la legislazione del regno di Sardegna, dopo il 1848, non prevede nessuna riduzione di pena per gli imputati che accusano i loro complici.

Nel ritratto: Carlo Persolio, Avvocato Fiscalista Generale di Torino, coinvolto nel processo Delpero. (Il Mondo Illustrato, 1860).

Nel ritratto: Carlo Persolio, Avvocato Fiscalista Generale di Torino, coinvolto nel processo Delpero. (Il Mondo Illustrato, 1860).

Aimasso conferma che dopo l’evasione da Genova, il 27 giugno, Delpero si è recato a Bra per cercare Giovanni Dogliani, con la scusa di portare notizie del fratello Bartolomeo. In casa Dogliani, Delpero ha conosciuto Aimasso, Bonino, Piovano e Piumati, con i quali ha formato la banda di cui è stato un dispotico e capriccioso capo. Anche Allegato era nella congrega, benché Aimasso sostenga di non averlo mai conosciuto di persona. Nervo dava informazioni sui colpi da compiere e le due Dogliani, madre e figlia, fornivano assistenza e il luogo di riunione. Aimasso racconta, in parte per sentito dire e in parte per partecipazione diretta, le malefatte prima descritte e definisce il ruolo dei vari complici. Tutte queste rivelazioni non sembrano fare piena luce sulle attività della banda di Delpero. Resta la palpabile sensazione, anche da parte dei magistrati inquirenti, che alcuni gravi reati non siano venuti a galla. Ma quanto accertato basta per un processo.

Nel marzo 1858, Delpero tenta di togliersi la vita in carcere fracassandosi la testa contro la parete della sua cella. Il tentativo di suicidio non cambia la data del dibattimento, che si svolge alla Corte d’Appello di Torino in otto udienze, tra il 19 aprile e il 1° maggio. Aimasso persiste nel sostenere le sue accuse, che non sempre trovano piena conferma. Il 6 maggio è letta la sentenza, che assolve Allegato, Piumati e le Dogliani madre e figlia. Condanna Nervo a 15 anni di lavori forzati e Delpero, Dogliani, Bonino, Piovano e Aimasso a morte. Per “esemplarità”, la sentenza sarà eseguita a Bra. Il 25 luglio, la condanna a morte di Aimasso è commutata nei lavori forzati a vita. La situazione, ancora difficile, non induce a clemenza verso i giovanissimi complici di Delpero: Piovano e Bonino, che hanno appena superato i ventuno anni, e Dogliani, non ancora maggiorenne.

La decisione di impiccare a Bra i quattro condannati crea non poche difficoltà per l’attuazione pratica. Si tratta di una imponente cerimonia che comporta lo spostamento di un massiccio contingente di militari, di poliziotti, di carabinieri, di funzionari e di quattro carnefici torinesi. Il municipio di Bra non ha accolto con entusiasmo l’idea di ospitare il patibolo e ha chiesto, invano, al re la grazia di far eseguire altrove la sentenza di morte.
L’esecuzione avviene il 31 luglio 1858, nel Pasco, il piazzale antistante la stazione della ferrovia per Cavallermaggiore, al di fuori dell’abitato, alle quattro del mattino, per anticipare la prima partenza del treno alle sei. I condannati sono chiusi nel carcere mandamentale del municipio di Bra, con accesso dalla via Barbacana. Qui è anche custodito il patibolo, appositamente fabbricato dal falegname braidese Sebastiano Olocco, al prezzo di novanta lire.

Delpero, a Torino, ha avuto le cure spirituali di don Giuseppe Cafasso. A Bra è assistito dalla locale Confraternita della Misericordia e sul patibolo si mostra rassegnato e pentito. Confessa di avere ucciso dodici persone (la legge gli ha addebitato soltanto sette omicidi!), dice di non prendere esempio da lui, di non oziare e di non seguire cattive compagnie, riconosce l’imparzialità della legge e ringrazia la Misericordia. Vuol parlare anche Piovano. Dice di non aver saputo mettere a frutto l’istruzione che i genitori gli hanno dato, anzi di essere diventato vanitoso e poltrone. Alle cinque sono tutti morti. La folla immensa che è accorsa a Bra per assistere alle quattro impiccagioni è colpita dalla morte esemplare di Delpero. Una morte tanto esemplare da entrare nella leggenda, di cui ci occuperemo un’altra volta, perché abbiamo qui preferito precisare gli aspetti storici della vicenda, che emergono dai documenti e non dalla tradizione orale.

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La sentenza della Corte d’Appello di Torino in data 6 maggio 1858 che condanna a morte Francesco Delpero e i complici Aimasso, Dogliani, Piovano e Bonino. (Archivio di Stato di Torino).

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