Il mio maestro Bruno Caccia

Il mio maestro Bruno Caccia

 di Gian Carlo Caselli

Da Bruno Caccia ho pure imparato come provare a rimanere sereno nei momenti più difficili. Insieme ne abbiamo vissuti parecchi. Come quella volta in cui ero andato a interrogare un terrorista prossimo a pentirsi, che per prima cosa (come… credenziale) mi disegnò la piantina dettagliata dei luoghi nei quali Caccia ed io andavamo a giocare a tennis, evidenziando la finestra cui soleva appostarsi armato – in attesa del momento “giusto” – un pericoloso brigatista ancora latitante. Quando, consegnandogli lo schizzo, raccontai tutto a Bruno Caccia, il suo commento fu: «Speriamo che non si sia segnato il punteggio, sennò che brutta figura ci avresti fatto…».


Ho lavorato con Bruno Caccia, praticamente a tempo pieno, per circa tre anni, dal 1974 al 1976. Lui era Pubblico Ministero e io Giudice Istruttore. Insieme abbiamo condotto le indagini che portarono al rinvio a giudizio – e poi alla condanna – di tutti i capi storici delle Brigate rosse (vale a dire i soci fondatori della banda) e dei fiancheggiatori dell’organizzazione criminale, spesso gravitanti in una “zona grigia” di contiguità di non facile definizione quanto alle responsabilità penali. Bruno Caccia aveva già allora una grande esperienza. Invece io ero ancora… alle prime armi. Perciò ho avuto la fortuna di poter imparare proprio da lui – da un grande maestro – i “fondamentali” del magistrato inquirente.

Bruno Caccia aveva sviluppato al massimo grado il “senso del possibile”: per ogni problema che si presentava al suo esame sapeva intuire e configurare tutte le possibilità, in fatto e in diritto, che quel determinato caso comportava. Definita l’intera gamma di possibilità, sapeva poi scegliere con motivazioni sempre precise e convincenti. Infine, nella scelta compiuta sapeva restare fermo senza tentennamenti (a dispetto di ogni ostacolo o polemica), sempre che ovviamente non intervenissero nuovi elementi di conoscenza o giudizio.

Da Bruno Caccia ho imparato l’importanza fondamentale di sviluppare un buon rapporto con le varie forze della polizia giudiziaria. Un rapporto rispettoso e corretto, finalizzato alla produzione dei migliori risultati investigativi nell’assoluto rispetto delle regole. Ricordo che nei primi tempi i rapporti con gli alti gradi li teneva pressoché esclusivamente lui, perché a lui solo si rivolgevano generali e colonnelli. Da me, “giudice ragazzino”, veniva solo qualche sottufficiale. Poi le cose si “normalizzarono” e anch’io ebbi accesso alle alte sfere. In questo modo potei contribuire, sulle orme e all’ombra di Caccia, ad aprire una stagione nuova nei rapporti fra magistratura e polizia giudiziaria.

All'inaugurazione di un anno giudiziario.

All’inaugurazione di un anno giudiziario.

Questa nuova stagione alla tradizionale separatezza fra polizia e magistratura, alle consolidate difficoltà di comunicazione fra la “scrivania” del magistrato e la “strada” su cui il poliziotto opera, sostituì – in progresso di tempo – forme di strettissima cooperazione. Ferma restando l’autonomia nei propri ambiti, senza appiattimenti gli uni sugli altri, rivendicando anzi le proprie prerogative se necessario con un confronto dialettico anche teso (ricordo bene ancora oggi alcune accese discussioni su orientamenti d’indagine che Caccia non condivideva), si sono moltiplicati e infittiti i momenti di “confusione”, di percorso comune, di complementarietà dei saperi e quindi delle valutazioni e degli interventi. Insieme, del resto, magistratura e polizia cercano di realizzare due valori fondamentali nel contrasto al crimine organizzato: specializzazione e centralizzazione dei dati. Specializzazione vuol dire che chi si occupa di un certo settore deve occuparsi soltanto di questo e occuparsene a tempo pieno, così approfondendo e affinando sempre più le proprie conoscenze e quindi la possibilità di penetrare in profondità la realtà del fenomeno. Senza specializzazione si perde un’importante chance. Allo stesso modo, se non vengono unificati in un unico motore di raccolta i dati ovunque acquisiti, anche mediante lo scambio organizzato e sistematico di risultati fra i diversi uffici, ecco la dispersione in mille rivoli non comunicanti di un patrimonio di conoscenze che è tanto più prezioso quanto più sia concentrato. Ecco che di nuovo manca una carta importante, giocando la quale invece la partita può assumere un ben diverso esito. Di tutto ciò Bruno Caccia fu pioniere e interprete, gettando le basi di un metodo di lavoro che sarà poi sviluppato e perfezionato con i pool di magistrati inquirenti, sul versante dell’antiterrorismo prima e dell’antimafia poi.

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Bruno Caccia durante l’inchiesta sulle Brigate rosse, 1974.

Da Bruno Caccia non ho imparato soltanto il “mestiere”. Ho potuto apprezzarne, infatti, oltre alla straordinaria esperienza professionale, prima di tutto l’acuta intelligenza e la capacità di penetrare in profondo, in tutte le sfaccettature, la realtà delle situazioni e delle persone. La requisitoria da lui scritta a conclusione dell’indagine riguardante i capi storici delle Brigate rosse ne è testimonianza esemplare: il terrorismo brigatista, che prima era una nebulosa sconosciuta o confusa, diventa un fatto criminale dai contorni e connotati precisi. Un fatto che, una volta decifrato, risulta meno difficile da contenere. Così, la requisitoria di Bruno Caccia costituisce la premessa di necessaria conoscenza per una più efficace lotta contro il terrorismo, fino alla sua sconfitta. Ancora oggi, rileggendola, la requisitoria di Caccia appare come una pietra miliare nella storia del contrasto investigativo-giudiziario della violenza eversiva. Purtroppo è ormai introvabile il libro che (ovviamente a insaputa di Caccia) la pubblicò, premettendovi tre saggi – si fa per dire – scritti da un terrorista, da un suo avvocato e da un fiancheggiatore, in nobile gara fra loro per denigrare, con farneticazioni varie, il lavoro “controrivoluzionario” degli inquirenti. Senza rendersi conto, nella loro miopia da delirio ideologico, del grande apprezzamento che così tributavano – involontariamente – a Bruno Caccia.

Da Bruno Caccia ho pure imparato come provare (lui ci riusciva) a rimanere sereno e forte anche nei momenti più tormentati e difficili. Insieme ne abbiamo vissuti parecchi: la scoperta che qualche “talpa” aveva tradito cercando (per fortuna senza riuscirvi) di impedire l’arresto di Renato Curcio e Alberto Franceschini operato dai Carabinieri a Pinerolo l’8 settembre 1974; le infinite, strumentali polemiche che si scatenarono quando l’inchiesta toccò soggetti collocabili a un qualche livello di “eccellenza”, con conseguente accusa agli inquirenti – un classico! – di uso distorto dei loro poteri; la morte del maresciallo Maritano, appostato in un covo delle Br appena scoperto e ucciso da un terrorista sopraggiuntovi poche ore dopo che Caccia ed io avevamo ultimato un sopralluogo proprio in quel covo; l’incredibile evasione di Curcio (poi ricatturato) dal carcere di Casale Monferrato; l’assassinio del Procuratore generale di Genova Coco, “punito” dalle Br per non aver ceduto al loro ricatto in occasione del sequestro Sossi, sequestro oggetto principale del processo torinese a carico dei capi storici delle Br; l’infinita catena di delitti scaraventata dalle Br su questo processo per cercare di impedirne in ogni modo la celebrazione, con lo scopo ultimo di dimostrare che «la rivoluzione non si processa».

Sempre, in tutte le circostanze difficili, Caccia offriva testimonianza concreta di risposte ferme ma serene. La consapevolezza e preoccupazione per la complessità dei problemi mai facevano ombra alla sua lucida valutazione della realtà. Mai ostacolavano la mobilitazione di ogni energia disponibile. Non c’erano recriminazioni sulle difficoltà, sugli ostacoli, sulle ingiuste accuse. Il tutto intrecciato con una rara capacità di sdrammatizzare, con una giusta dose di ironia, persino le situazioni più tormentate. Come quella volta in cui ero andato a interrogare, nel carcere di Bergamo, un terrorista prossimo a pentirsi, che per prima cosa (come… credenziale) mi disegnò la piantina dettagliata dei luoghi nei quali Caccia, io e altri colleghi andavamo a giocare a tennis, evidenziando la finestra cui soleva appostarsi armato – in attesa del momento “giusto” – M. B., un pericoloso brigatista ancora latitante. Quando, consegnandogli lo schizzo, raccontai tutto a Bruno Caccia, il suo commento fu: «Speriamo che M. B. non si sia segnato il punteggio, sennò che brutta figura ci avresti fatto…». Questo, anche questo, era Bruno Caccia.

Leggi anche gli altri articoli dedicati a Bruno Caccia:
– “Nessuno pronunci il suo nome invano”, di Marcello Maddalena
– “Ceresole per noi, famiglia Caccia”, di Paola Caccia
– “Bruno Caccia, un servitore dello Stato”, di Piermario Demichelis

QUESTO ARTICOLO E’ APPARSO SUL N. UNO di “Roero Terra Ritrovata”
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