Il Roero al tempo degli Orsi

Il Roero al tempo degli Orsi

di Daniele Gaia

Era la metà degli anni Trenta: tra le capezzagne e nelle vie dei paesi iniziarono ad aggirarsi gli Orsi. No, non le belve che popolano le foreste del grande nord, bensì i primi trattori (Orsi era il nome della fabbrica che li produceva). Il mondo agricolo e rurale non fu più lo stesso.


(Molte informazioni contenute nel presente articolo sono tratte dal libro “Il trattore d’epoca” di Giorgio Bollino – Edizioni Gribaudo, 1994. Un prezioso contributo alle fonti è stato fornito da Giampaolo Cavagnero di Vezza d’Alba).

Il primo "testa calda" della ditta Orsi, 1931.

Il primo “testa calda” della ditta Orsi, 1931.

Aggirandosi per le strade e i sentieri sterrati nel Roero del primo Novecento, era normale imbattersi in una coppia di buoi legati con il giogo, solennemente intenti a trainare un pesante aratro di legno o di ferro. Quella di impiegare gli animali come mezzi da lavoro era la sola risorsa che ai contadini era concessa in alternativa alle loro braccia: un aiuto importante, certo, che però non può farci cogliere fino in fondo la differenza abissale che separa la campagna “di allora” da quella tutta macchine e tecnologie che siamo abituati a conoscere oggi.

orsi3Proviamo allora a indagare sinteticamente sul momento storico in cui nelle campagne del Roero, così come in quelle del restante Piemonte, cominciò a diffondersi l’uso dei mezzi meccanici: diremo già fin da queste premesse che si trattò di una rivoluzione autentica, destinata a segnare in profondità non solo il ritmo di lavoro nei campi, ma la stessa sfera culturale, sociale e perfino affettiva dei nostri paesi, come ben dimostrano alcune delle testimonianze riportate in seguito. Un passaggio epocale, passato alla storia come “l’età degli Orsi”.
Era la metà degli anni Trenta: un mattino imprecisato di una stagione che poteva essere primavera o autunno, sulle voci dei ragazzi al seguitodei padre in campagna, oltre il rumore delle catene e delle cinghie dei gioghi tradizionali, sotto il cigolio dei carri traballanti di ritorno in paese, iniziarono a sentirsi nuovi rumori, ritmati, cadenzati, intensi e rochi allo stesso tempo. Tra le capezzagne, nelle vie dei paesi, sulle piazze stranite iniziarono ad aggirarsi gli Orsi. No, non le belve che popolano le foreste del grande nord, bensì i primi trattori (Orsi era il nome della fabbrica che li produceva), macchine agricole di nuova generazione. La prima, vera, concreta “mano” che arrivava ai contadini dalla roboante industria pesante che ormai stava procedendo spedita verso il progresso e, nello stesso tempo, verso la più devastante prova di capacità ingegneristico-meccanica mai fornita prima di allora: la Seconda guerra mondiale.

Come per le prime automobili, all’inizio la vista di tali mezzi era un avvenimento sporadico, talmente raro che tra ragazzi si giocava a chi ne avesse visti di più in un mese, poi in una settimana, poi in un giorno… Pochi immaginavano all’epoca che solo pochi decenni dopo quelle macchine così pesanti, scomode e rumorose sarebbero diventate la base imprescindibile dell’agricoltura, l’oggetto fondante attorno a cui costruire un’azienda, subito dopo la terra – e oggi a volte anche prima della terra…

Di lì a pochi anni i buoi sarebbero stati pensionati, via…, scomparsi dalle stalle dalle cascine, fino alla scomparsa delle cascine stesse, con tutto il loro bagaglio di incontri nelle vijà, di nidi per le rondini, di rifugio per i giochi dei più piccini: tutti aspetti minimi questi, forse, ma che in poco tempo portarono a uno stravolgimento della stessa fisionomia dei paesi e delle contrade.

Landini

Giunsero gli Orsi, dunque, e con essi i diretti avversari in campo commerciale, i Landini: dualismo ancora oggi vivissimo nel mondo del collezionismo, che ha fatto del possesso di questi oggetti un vero culto.
Li chiamavano “testa calda”. E non perché facessero le bizze o avessero reazioni scorbutiche (anche se, in effetti, un po’ “nervosi” lo erano, soprattutto se paragonati all’implacabile perfezione tecnologica dei trattori di oggi), ma perché il procedimento che muoveva  questi mezzi straordinari era proprio questo: il motore a “testa calda” è un motore endotermico a iniezione, nel quale l’accensione del combustibile è ottenuta mediante l’utilizzo di una superficie rovente.

Il mondo agricolo e rurale, si diceva già in precedenza, non fu più lo stesso. Lo scoppiettare acuto e possente di questi nuovi “buoi da lavoro” iniziò a riecheggiare nelle prime giornate calde della primavera, trasportato fin dentro la cascine dalla fresca brezza di marzo, o tra la polvere che si alzava nei rari sprazzi di aria bolente degli afosi pomeriggi d’estate, ma ancor di più nel cruciale mese di settembre, tra i filari carichi di uva. Prima isolato, poi in compagnia, infine sempre più frequente, tanto da divenire parte integrante dei rumori tipici della campagna moderna.

“Un sogno per pochi ricchi”, “un oggetto inutilmente grande e pericoloso”, “un mezzo adatto alle pianure”…: questo e altro ancora si diceva davanti ai bar, al passaggio di un trattore. Mai previsione si rivelò meno azzeccata!
Lo sviluppo dei “testa calda” coincide perfettamente con il periodo di sviluppo economico e tecnologico italiano. Nel 1904 fu la Landini, storica rivale della ditta Orsi a creare il primo macchinario agricolo, seguita nel 1907 proprio dalla Orsi, che però potè per prima vantarsi di avere un treno di macchine completo per la lavorazione del grano, coltivazione in assoluto più diffusa e importante nell’Italia rurale del tempo.
Locomobile, trebbiatrice, pressaforaggi: tre macchine importantissime e innovative, spesso frutto non dell’acquisto del singolo agricoltore, ma di un investimento per l’utilizzo in conto terzi nei periodi dell’anno in cui era richiesta la lavorazione. Fu allora che si sviluppò il rito della battitura del grano nelle aie delle cascine, con tutto il suo strascico di viva socialità passato giustamente negli annali dei ricordi.

La ditta Orsi crebbe a dismisura, tanto da essere la prima, nel 1910, a varcare i confini per presentarsi in forze alla rinomata International Exhibition di Richmond, presso Londra; le innovazioni apportate dalla fabbrica italiana riscossero grande successo, ottenendo la medaglia d’oro e il diploma di beneremenza della Works of Art, Commerce, Industry, Alimentation and Hygiene.

 

Lo stabilimento Orsi a Tortona, in provincia di Alessandria. (Foto tratta dalla Monografia di Giorgio Benvenuto “Orsi Pietro e figlio – Costruzioni meccaniche agricole.”

Nel 1917, su 52 pertiche di prato di porta Voghera, Orsi fece sorgere il suo stabilimento a Tortona.

Nel 1920 alla Orsi lavoravano già 120 persone. Nacque un trattore da 35 cavalli, monocilindrico a testa calda, robusto e potente, ma non particolarmente innovativo rispetto ai tipi esistenti. I motori a testa calda furono gli unici tipi di motore che la Orsi produsse dal 1930 al 1963.

I numeri continuarono a crescere: 154 vetture nel 1932, 318 vetture nel successivo anno di lavoro, frutto anche della continua ricerca di prestazioni e praticità unite a un costo non eccessivo, per avvicinarsi sempre di più alla grande massa contadina italiana.

Nel 1932 la Orsi riuscì ad assicurarsi una commessa di prestigio con l’Opera Combattenti e i consorzi di bonifica dell’Agro Pontino, da poco liberato dalle paludi. Furono ben 110 i treni completi di trebbiatrici pressaforaggi e trattori a prendere il via da Tortona per tale destinazione. Cinegiornali e riviste dell’epoca portarono in tutta Italia l’immagine di Benito Mussolini che a torso nudo lavorava e impartiva direttive dall’altro delle trebbiatrici “Orsi”. Fu quello il periodo di maggior visibilità che questa importante realtà industriale visse: il tanto propagandato ammodernamento delle campagne subì negli anni seguenti un brusco stopo a causa della guerra.

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La “storica” fotografia del Duce alla trebbiatura del grano nell’Agro Pontino. 1932 circa. (foto tratta dalla Monografia “ORSI PIETRO & FIGLIO – COSTRUZIONI MECCANICHE AGRICOLE – TORTONA” di Giorgio Benvenuto.

Come tante altre aziende, la Orsi venne riclassificata e divenne una delle tante industrie del settore bellico sorte in quegli anni. La produzione di trattori fu decisamente ridotta per lasciare spazio ai più urgenti ordini militari. Poi la guerra finì, e si potè tornare alla vocazione produttiva di partenza. Nacquero ancora diversi modelli, alcuni poco fortunati (come il Super Orsi 50 cavalli) perché probabilmente sfornati troppo a ridosso della fine del conflitto per poter essere realmente competitivi su un mercato dilaniato dal conflitto.
La ricerca e l’ingegno però portarono nuovamente l’azienda al top nel settore, con la produzione di due modelli che superarono la soglia dei 500 modelli costruiti, raggiungendo la quota record di 568 esemplari del celebre Orsi Argo, il primo a montare un albero cardanico.
A un certo punto, quasi inspiegabilmente, i modelli Orsi cominciarono a essere difficili da vendere. Sicuramente la concorrenza, anche straniera, si fece forte, e nel giro di pochissimi anni lo sviluppo cessò. L’azienda dovette stipulare un contratto con la tedesca Hanomag per la diffusione dei propri mezzi sul mercato; dopo un buon periodo iniziale, complici alcune scelte sbagliate (tra cui quella di puntare sui mercati orientali, allora tutt’altro che appetibili come oggi!), la nuova casa madre dovette tagliare i fondi, fino a lasciare la storica azienda al suo destino. Per assurdo, la storia della gloriosa Orsi si fermò proprio sulla soglia del boom economico. Era il 1964.

Argo

 

“TESTA CALDA” CHE PASSIONE!

TESTIMONIANZE TRA NOSTALGIA E COLLEZIONISMO

A Castellinaldo i nuovi protagonisti della scena agricola arrivarono decisamente tardi rispetto alla loro uscita sul mercato. La conformazione delle nostre colline poco si prestava a questi mezzi, adatti decisamente più alla pianura, considerati il loro peso, la loro stazza e le attrezzature di cui erano dotati. Eppure, anche nel piccolo comune roerino c’è chi è pronto a parlare dei “testa calda” con lo stesso afflato con cui si parlerebbe di una persona, e di una persona cara.
Mario Cassinelli e Anna Costa, marito e moglie, provengono, per uno strano scherzo del destino, dalle prime due famiglie che possedettero e utilizzarono le nuove macchine. La famiglia di Anna Cassinelli fu, per la precisione, la prima a Castellinaldo a fare di questi mezzi la propria fonte di sostentamento, effettuando lavori per conto terzi presso i piccoli proprietari del paese, e non solo. La famiglia di Mario Cassinelli, invece, già proprietaria di terreni, scelse la via della meccanizzazione nonostante i costi elevati dell’acquisto, proprio per cercare di abbassare la fatica e aumentare la produttività dei propri appezzamenti.

La pausa dalla trebbiatura a San Giuseppe di Castagnito (Foto Archivio fam. Massucco)

La pausa dalla trebbiatura a San Giuseppe di Castagnito (Foto Archivio fam. Massucco)

Fino ad allora solo i Conti, proprietari di estese tenute in diversi centri del Roero, avevano fatto circolare trattori nei loro campi. I racconti dei nostri due testimoni ci riportano a un’età quasi pionieristica, fatta di sfide e intuito. «La famiglia di mio papà Luigi era numerosa – racconta Anna – come molte all’epoca: sei fratelli e tre sorelle. La terra a disposizione era poca, così ognuno di essi si mise a lavorare sotto servitù per i principali proprietari terrieri, soprattutto i conti di Canale e Castellinaldo.
Con i risparmi di una vita, nel 1955, mio papà decise di fare il grande salto: acquistò un trattore Ford e si mise finalmente in proprio a effettuare lavorazioni per conto terzi. Il sacrificio fu grande, ma le prospettive parlavano chiaro: un valido aiuto per tutti, in particolare per i piccoli lavoratori, che potevano pensare di fare a meno dei buoi e di tanta fatica manuale.
Le stagioni agrarie divennero ben presto molto piene: l’interesse si fece sempre più forte e con il nostro trattore a testa calda si lavorava molto, con particolare intensità nei periodi dell’aratura, dell’erpicatura e della battitura del grano. Le vigne non erano ancora così dominanti sull’economia locale e, vista l’impossibilità di entrare in molti vigneti con un mezzo di quelle dimensioni, l’unica operazione che si poteva effettuare era quella dei trattamenti con la gomma collegata al trattore stesso». Mario entra nel discorso con la sua vicenda umana e professionale. «La mia famiglia acquistò un Fiat 25 cingolato, perché meglio si prestava ai lavori sui nostri appezzamenti. Fummo i primi in assoluto ad avere un cingolo in zona. Un bel cambiamento nel modo di lavorare: non avevamo più bisogno del bestiame da lavoro. Un cambiamento che costò però quattro milioni di lire! Paragonati al valore della frutta di allora, erano un enormità…».

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Il libretto del modello 700B della Fiat, di proprietà di Luciano Costa di Vezza d’Alba. Si tratta di un modello unico in Italia: il 700B fu infatti destinato esclusivamente all’esportazione in Jugoslavia, a titolo di risarcimento di guerra.

Una delle operazioni che più si avvantaggiarono dei nuovi mezzi fu senz’altro la battitura del grano. «Un anno – continua Mario – decidemmo di sistemarci per una settimana intera presso la piazza delle “Aie” e per un’altra presso il “Bià”, dunque sulla parte alta di Castellinaldo, dove ancora non c’era una vera e propria piazza, bensì un grande stagno e uno spiazzo utilizzato per posizionare la macchina da battere il grano.
Si iniziava alle quattro del mattino. I contadini ci portavano i fasci di grano da battere sui carri, e si batteva tutto il giorno e la macchina non veniva mai fermata. Si mangiava lavorando o, se possibile, dandosi i cambi a intervalli regolari». «Solitamente – interviene Anna – si era in cinque: uno all’ “imboccatura del grano”, uno ai sacchi e due a legare le balle di paglia. Il quinto era a riposo; ci si dava il cambio per convenzione ogni 20 sacchi prodotti».
Tutto per le famiglie di allora era importante, dalla paglia al singolo chicco di grano: «C’era chi, finiti i suoi covoni, si metteva con una scopetta a raccogliere tutti i chicchi rimasti a terra. A volte si scatenavano discussioni poiché, non fermando mai la macchina, si faceva passare il grano di un produttore subito dopo quello di un altro, il quale contestava che parte del primo sacco fuoriuscito fosse ancora il suo grano rimasto nella macchina! La giornata era durissima per tutti, anche per chi portava la macchina: al termine della giornata bisognava quasi sempre smontare tutto e rientrare a casa, con la prospettiva di svegliarsi nuovamente nel cuore della notte».
Solitamente dietro il “testa calda” che non trainava la macchina da battere il grano si tirava un carro su cui erano caricati la nafta necessaria a far marciare il trattore tutto il giorno, una serie di rudimentali strumenti per i casi in cui si fosse verificata una rottura, i cunei (importantissimi per tenere ferma la macchina, che era soggetta a forti oscillazioni a causa del deciso movimento degli ingranaggi: del resto per la separazione dei chicchi dal resto della spiga si dovevano proprio sfruttare questi “tremolii”) e il “curiass”, ovvero la cinghia utilizzata per collegare la puleggia del trattore a quella della macchina.

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Sorride la signora Anna, quando ricorda un aneddoto legato a queste giornate interminabili: «Una sera mio padre partì con il trattore dal luogo della battitura. Sul carretto, tra i vari strumenti di lavoro, c’era anche uno dei miei fratelli che dormiva esausto dalla giornata. Il rumore del trattore era fortissimo e fu così che, soltanto una volta giunto a casa, mio padre si accorse di aver perso il figlio per strada! A causa del forte sonno e delle oscillazioni, mio fratello prima era scivolato senza accorgersene sul fondo del carretto, quindi era caduto a terra, invano mettendosi a correre dietro quel “cavallo a motore” che procedeva spedito e urlando così forte da rendere inutile ogni grida di richiamo…».
Fin qui il lavoro. Ma, si sa, nella vita oltre al lavoro contano anche le passioni le quali, notoriamente, sono assai variabili da persona a persona. C’è chi colleziona francobolli e chi… trattori a testa calda!

Un momento della grande rievocazione che Angelo Viberti, collezionista di "testa calda", promosse alcuni anni fa a Castellinaldo.  Anche nell'immagine è ben evidente il "dualismo" storico tra le ditte Orsi e Landini.

Un momento della grande rievocazione che Angelo Viberti, collezionista di “testa calda”, promosse alcuni anni fa a Castellinaldo. Anche nell’immagine è ben evidente il “dualismo” storico tra le ditte Orsi e Landini. (foto di Carla Molino)

A Castellinaldo sono addirittura due i collezionisti di questi meravigliosi oggetti…
Noi siamo andati a trovarne uno per cogliere una testimonianza che ci faccia capire che cosa muova una persona che decide di vivere la sua passione per i motori e, in particolare, per questo tipo di motori, fino ad arrivare a possederne una collezione.
Angelo Viberti è figlio di una tipica famiglia di campagna; lui il “testa calda” lo ha sentito rombare e vibrare fin dal grembo materno. Un rumore divenuto più labile dopo il suo trasloco ad Alba. La vita di campagna non era facile, la città si rivelò per la famiglia di Angelo una grande attrattiva, un miraggio di modernità e ricchezza cui pochi riuscivano a sottrarsi. Ma il destino volle che quel rumore cadenzato gli restasse nelle orecchie: nel cortile della sua nuova abitazione vi era un’officina meccanica specializzata in trebbiatrici. E la trebbiatura all’epoca aveva un solo nome: Orsi, naturalmente! D’estate, poi, Angelo trascorreva un lungo periodo presso lo zio residente in Vaccheria di Guarene d’Alba, e ancora una volta quel rumore nella sua vita: lo zio ogni anno si avvaleva dei contoterzisti Borio per la trebbiatura del grano nei propri appezzamenti. Così, assolvendo al proprio compito di aiutante accanto a quegli straordinari prodigi tecnici, iniziò a balenare l’ipotesi, un giorno, di acquistare una di quelle splendide trattrici. Prima fu il pensiero di un bambino, poi la convinzione di un ragazzo, infine la certezza di un uomo.
Nel periodo di “massima espansione” la collezione di Angelo arrivò a contare una decina di mezzi. Collezione, certo, ma anche battaglia di civiltà (contadina, ovviamente). Il recupero di quei mezzi ormai in disuso, spesso scovati nei granai delle cascine comprate dagli stranieri o dai nuovi imprenditori agricoli che di simili “pezzi d’antiquariato” proprio non sapevano che fare, fu tutt’altro che semplice.
«La soddisfazione per me non è mai stata di avere il trattore in sé e per sé, ma di vederlo rinascere a vita nuova dopo lunghe notti passate in garage o nelle officine, dopo le estenuanti fiere alla ricerca dei pezzi di ricambio originali, perché tutto deve essere assolutamente perfetto… Il prezzo dei ricambi oggi è decisamente alto, ragione per cui molti si dirigono su pezzi moderni rifatti ad hoc. Così capita di trovare sul mercato molti testa calda “ringiovaniti” ».
Questa sua passione sfociò alcuni anni fa, e per alcune edizioni tenne banco nell’estate castellinaldese, in una splendida festa sull’aia, nella quale si ritrovavano decine di proprietari e di relativi mezzi, tirati fuori dai garage e rimessi in campo, nel vero senso della parola. Fu un’esperienza esaltante.
I modelli più rari attualmente valgono anche 50.000 euro: nello specifico, si parla solitamente di trattori Landini di prima e seconda serie.

Ancora un momento della rievocazione di Castellinaldo (foto di Carla Molino)

Ancora un momento della rievocazione di Castellinaldo (foto di Carla Molino)

Oggi, per motivi di spazio, anche se il cuore non avrebbe voluto mai dover fare certe scelte, la collezione di Angelo Viberti si riduce al primo grande amore, quel Super Landini del 1939 che usava e usa tuttora per prove di aratura; un mezzo in grado di trainare un aratro di 80 centimetri e che «ti squassa le ossa tanto cigola e trema, ma tutto è superato dal piacere di sentirlo cantare come un tempo! ».

 

 

 

QUESTO ARTICOLO E’ APPARSO SUL N. UNO di “Roero Terra Ritrovata”
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